PARALLELO
3 Aprile Apr 2016 0900 03 aprile 2016

Jihadisti, perché l'ideologia ricorda quella delle Br

Emarginazione e banlieue? Dietro gli attentati di Parigi e Bruxelles c'è dell'altro. Una forza rivoluzionaria che ripugna l'Occidente. Come il terrorismo Anni 70.

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Molenbeek, quartiere di Bruxelles.

Vedi alla voce integrazione.
Chérif Kouachi, che con il fratello Said assaltò la redazione del settimanale satitico francese Charlie Hebdo il 7 gennaio 2015, sognava di fare il rapper.
E come un rapper fumava erba e si era messo al soldo di una gang di ladruncoli.
Hasna Aitboulahcen, la “shahida” che si fece saltare in aria durante il blitz della polizia francese a Saint Denis, lavorava come manager in una multinazionale delle costruzioni. Era molto apprezzata.
Quello che potrebbe diventare la gola profonda del jihadismo, Salah Abdeslam, era una dipendente pubblico: faceva il meccanico dei tram della municipalizzata di Bruxelles.
CONTAMINAZIONI OCCIDENTALI. «A Bologna», nota lo scrittore e giornalista Ugo Maria Tassinari, «uno degli ultimi arrestati dalla locale procura con l’accusa di essere istruttore di alcuni jihadisti era stato denunciato anche per aver stuprato una ragazza con un coltello. Un reato che è squalificante e materialista per la religione islamica». Un reato molto occidentale.

I kamikaze non sono sempre figli dell’emarginazione sociale

Agenti di polizia davanti a un appartamento appena perquisito a Bruxelles.

Kouachi, la Aitboulahcen o Abdeslam sembrano più integrati nell’Occidente di quanto si voglia ammettere.
Poi - all’improvviso - hanno deciso di combattere il mondo nel quale sono cresciuti.
Anche dopo gli attentati di Bruxelles è stata ripetuta l’equazione tra terrorismo e mancata integrazione.
Chi colpisce, vuole una certa vulgata, è figlio delle banlieue, dell’emarginazione sociale, del multiculturalismo e del fallimento, per l’appunto, delle politiche d’integrazione.
Il concetto è stato ripetuto in un florilegio di like and retweet anche da Roberto Saviano.
«L’unica risposta possibile all'orrore è accogliere», ha scritto lo scrittore. «Il terrorismo si combatte solo con l'integrazione».
PARALLELO CON GLI EX PRIMA LINEA. Maurizio Costa, ex Prima linea condannato per omicidi Vaccher e Paoletti e oggi impaginatore di libri rari e appassionato dell’islam, è di diversa idea.
E vede in quanto sta avvenendo qualcosa di più profondo e forse simile alla sua esperienza.
«A noi quell’Occidente faceva schifo. Guardavamo a un’operazione soggettiva, che voleva cambiare gli equilibri della società, dove la violenza doveva essere il motore per costringere gli oppressi a cooperare. Anche quest’ultima generazione di terroristi vuole testimoniare la loro ripugnanza contro questo Occidente. Ma sono più ideologizzati di noi: sono come come il guerriero arabo che nel film Lawrence d’Arabia vede il villaggio distrutto e carica i turchi».

L'errore di valutazione: concentrarsi sulle moschee e non sulle carceri

Il logo delle Brigate rosse, la stella a cinque punte.

Negli Anni 70 Giorgio Bocca scriveva di «sedicenti Brigate rosse» e Francesco Cossiga legava il terrorismo alla «resistenza incompiuta».
All’impossibilità del Partito comunista italiano (Pci) di fare la rivoluzione in un’Italia che a Yalta era stata collocata nel fronte atlantico.
Nel 2005, quando l’ex ministro dell’Interno ed ex presidente della Repubblica ripeté la sua analisi all’ex Br Adriana Faranda, questa - in maniera molto garbata - gli rispose: «Lo sa che una delle cose che mi avevano più colpito fu un film: Cristo fra i muratori. Questa cosa dei morti del lavoro mi ha accompagnato sempre...».
COLPEVOLI RITARDI. Allora quell’approccio (romantico) e tutto incentrato sull’eredità dei partigiani finì soltanto per nascondere che alla sinistra (e più a sinistra) del Pci era nato un partito rivoluzionario, che seguiva al dettaglio quanto stabilito da Lenin 70 anni prima.
Soprattutto non riconoscere ai terroristi la giusta collocazione ideologica e militare creò non pochi ritardi nella lotta e l’individuazione dei principali capi.
Oggi invece, ridurre tutta l’ondata terroristica jihadista a povertà ed emarginazione ha spinto gli inquirenti e la politica a mettere nel mirino soprattutto il ruolo delle moschee o i rischi legati all’immigrazione di massa.
Lasciando campo libero, come dimostrano il passato criminale dei fratelli Kouachi o di Abdeslam, al reclutamento in carcere.

«Guerriglieri» più che «terroristi»

Un soldato dell'esercito regolare siriano con una bandiera dell'Isis.

Tassinari, un passato nell’estrema sinistra e oggi tra i massimi studiosi della destra radicale (il suo Fascisteria, così come il successivo blog Fascinazione, resta una bibbia per districarsi in questo mondo) nota che «non a caso anche Malcom X si convertì all’islam in carcere. Qui ci si muove in una logica rivoluzionaria, tanto da portare alle estreme conseguenze la guerra non ortodossa: non esistono innocenti, tutti gli obiettivi, i caffè, gli stadi, un quartiere di immigrazione come Molenbeek, sono luoghi di guerra».
Tassinari preferisce «il termine guerriglieri a quello di terroristi».
CAUSE ECONOMICHE. E ricorda che, nel terrorismo italiano, «l’esperienza più legata alla resistenza come i Gap fu marginale. Il fenomeno nacque con la fine delle illusioni della bomba a piazza Fontana, ma l’escalation arrivò nel 1974 con il Compromesso storico, per poi toccare l’apice tra il 1977 e il 1978. Allo stesso modo, per quanto riguarda il fronte islamico, di fatto è passato lo stesso lasso di tempo tra la prima rivolta delle Banlieue del 2006 e gli attentanti di Bruxelles. Anni nei quali non c’è stato soltanto il degrado delle periferie, ma soprattutto la crisi economica, il taglio del welfare e la fine delle prospettive».
Epifenomeni che fanno di questo terrorismo «una guerra europea, più che uno scontro di civiltà».

Una forza 'rivoluzionaria' che non nasce tra i migranti

I paralleli tra il nostro terrorismo, quello iniziato alla fine degli Anni 60 con la bomba Piazza Fontana, e quello islamista vengono spontanei.
Li fa chi quella stagione li ha vissuti, ma anche chi studia culture distanti chilometri e anni luce da noi.
E prova a trovare un filo nell’ideologia.
Andrea Plebani, docente alla Cattolica di Milano di storia delle civiltà e delle culture, ha scritto nel suo ultimo saggio Jihadismo globale (Giunti, 142 pagine, 16 euro): «Dietro a un’aura di barbarie in grado di evocare immagini che nulla sembrano aver a che fare con l’era contemporanea si cela, infatti, un messaggio capace di attirare militanti provenienti da aree, ceti sociali e background profondamente differenti. Basti pensare a Osama bin Laden, rampollo di una delle famiglie più ricche e influenti del regno saudita».
FORTE SISTEMA VALORIALE. Per poi arrivare alla conclusione che «da un’attenta analisi dei loro scritti e delle loro storie appare evidente come le azioni da essi perpetrate non possano essere spiegate da forme di devianza, manipolazione o da situazioni di estremo disagio sociale, ma dall’adesione a un sistema valoriale alieno al modello culturale occidentale, ma non per questo meno segnato da valutazioni razionali».
SPINTA SUNNITA DECISIVA. Forte del suo passato e dei suoi studi sull’islam moderno, Maurizio Costa individua quel «sistema valoriale alieno al modello culturale occidentale» nel wahhabismo, il movimento sunnita che dal Settecento in poi ha plasmato la politica e la società saudita.
«Il wahhabismo e le sue frazioni», spiega Costa, «è un movimento che storicamente riporta l’islam nel vivo della società. Non a caso permette dopo l’era dei Mori, con la conquista dei possedimenti romani in Maghreb e in Medioriente usando anche le istituzioni di Roma, e dopo la conquista dei Turchi, di mediare tra i bisogni della cultura islamica e gli impeti alla Guerra santa. Non a caso riporta il mondo islamico alle tribù: in moltissimi casi anche al nomadismo e all’agricoltura».
Cioè a un frazionamento contrario a quello che era il progetto di unificazione maomettana e che è alla base delle moderne guerre civili.
SERVONO STRUMENTI CULTURALI. Secondo Costa, storicamente tutti i movimenti del mondo islamico hanno come unico comune denominare il fatto che «i leader rivoluzionari hanno sempre avuto nelle loro mani gli strumenti culturali per comprendere la società. Per questo non è possibile che l’ultima rivoluzione islamica possa essere sorta fra i pezzenti che emigrano».


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