pranzoTassinari

S’intitola “Stagioni. La bella vita e le buone opere di Antonio Luongo” (Immaginapoli) il libro che il giornalista e scrittore Ugo Maria Tassinari ha pubblicato per ricordare –a un anno esatto dalla sua improvvisa scomparsa- il politico lucano, parlamentare e segretario regionale del Pd.

Con Tassinari, arguto e smaliziato conoscitore del retrobottega politico lucano, abbiamo discusso di questa figura, che nel centrosinistra oggi “manca” (almeno a parole) un po’ a tutti, ma che nei suoi ultimi giorni da segretario fu oggetto di polemiche feroci.
Forse troppo.
Come giustifica la sua esistenza?
C’è un dispositivo karmico: qualcuno deve pagare i peccati della vita precedente e il Signore ha mandato me per regolare i conti.
Quando è uscito il suo libro su Antonio Luongo, ho subito pensato: “Solo Tassinari poteva farlo: avevano lo stesso look!”.
E’ vero! Ad Antonio piacevano le mie giacche e qualche volta mi ha chiesto dove avessi comprate alcune cose mie, piuttosto improbabili.
Lei pubblica un libro sulle “buone opere” di un politico come Antonio Luongo, e magari qualcuno pensa: “Evidentemente Tassinari era in debito con lui per qualcosa”...
No, a me personalmente, lui non ha fatto nessuna opera di bene. Altri, magari, mi hanno dato una mano.
Chi?
Beh, Vito Santarsiero, per esempio, che mi aiutò quando dovetti lasciare il quotidiano La Nuova – ero contrario alla linea editoriale che si voleva intraprendere- facendomi fare dei progetti con la Provincia. Un paio di altri politici –un ex democristiano e un ex comunista, ma non Luongo- successivamente, si limitarono a fare il mio nome, una volta interpellati dall’allora dg del San Carlo, Cannizzaro, che stava facendo una più ampia indagine di mercato per trovare un buon addetto stampa. Chiaramente, però, quello che ho ottenuto è sempre stato grazie al mio lavoro e alle mie capacità: nessuno mi ha regalato niente.
Il primo incontro con Luongo?
Aprile 1999, nella federazione di via Mazzini a Potenza. C’era la presentazione della candidatura di Gianni Pittella alle Europee e io, che ero stato per giorni chiuso in ufficio per fare il giornale con la redazione dimezzata, decisi di uscire per la prima volta. Mi presentai a Gianni e questi a sua volta fece per presentarmi a questo lungagnone dinoccolato che arrivò muovendosi a scatti, con le mani in tasca e l’eskimo di ordinanza. Luongo a quel punto fece un gesto eloquente con la mano e disse a Pittella: “Attento, che questo qui è amico di Velardi”; cosa vera, tra l’altro, perché ero stato suo compagno di scuola.
Con Luongo quando siete diventati amici?
Maggio 2002. Era in corso “Bookmark” e la sera prima noi di quel gruppo avevamo intervistato in piazza, con grande scalpore, Helena Velena, transgender, esponente della scena hardcore punk di Bologna. Alle due di notte andammo a fare baldoria alla vineria in Viale Marconi, e a un certo punto arrivò il cameriere che ci portò una buona bottiglia di rum, offerta proprio da Luongo, che era anche lui nel locale e che si era divertito a seguire la nostra ammuina.
Una “buona” bottiglia di rum?
Sì, Antonio era uno dai gusti molto raffinati e anche molto generoso. A un certo punto si sedette con noi e iniziammo conversare di musica hardcore punk., per diverse ore. Antonio poi rientrò, ma quella stessa mattina a casa sua arrivarono i Carabinieri: era il giorno del blitz della Tangentopoli Lucana.
Dov’era quando ha saputo della sua morte, invece?
Alle cinque e mezzo di mattina una collega della Rai mi telefonò chiedendomi notizie della morte di Antonio Luongo. Può immaginare la tentazione di mandarla a quel paese: succede sempre che qualche collega pensi che io abbia una specie di palla di vetro. Passata l’adrenalina, mi precipitai in ospedale e il piazzale era già gremito. In poco tempo arrivarono tutti. Fra le ipotesi c’era l’incidente stradale, ma poi fu subito chiaro che era stato l’infarto la vera causa del decesso.
Lei ha detto che c’erano praticamente tutti. Chi ha visto piangere?
Margiotta non riusciva a parlare: io cercai di abbracciarlo ma lui non volle. Scoprii in seguito che, alla sua prima candidatura come rappresentante al liceo –era già bravissimo a prendere voti- Luongo era il suo leader. Piangevano Folino e Bubbico. Vito De Filippo, anche lui, era molto commosso.
Quel giorno e poi al funerale, c’era invece qualcuno che – secondo lei - presenziava “ipocritamente”?
No, niente ipocrisia, la cosa era talmente sincera che alcuni –pur essendo stati legatissimi a Luongo- presenziarono con estrema ed evidente freddezza. Non mi faccia fare i nomi.
Le chiedo questo perché, quando Luongo morì, io scrissi “Tutti belli quelli che nascono, tutti buoni quelli che muoiono”. Il senso è che Luongo, fino al giorno prima della morte, era stato molto duramente criticato come segretario del Pd; qualcuno arrivò a dire che era morto di crepacuore per i dispiaceri e l’ansia. Dopo la morte -e in questi giorni dell’anniversario- si sono letti invece molti tributi “nostalgici”.
Se c’è una persona che doveva morire di crepacuore, era proprio Antonio Luongo. Su dieci fattori di rischio, lui ne aveva undici: il padre era morto d’infarto a 43 anni, il fratello era stato operato di by-pass, lui stesso era iperteso, beveva venti caffè al giorno e fumava come un turco. Mario Russo, vecchio compagno, dirigente della direzione sanitaria del san Carlo, quante volte glielo aveva detto: fatti nu check. Antonio, poi, lo chiamavano “Atlante”, perché si faceva carico di tutte le ansie, ma il fatto è che aveva una specie di complesso di superiorità.
Si sentiva una specie di “Highlander” (immortale – ndr)?
Sì, era un fatalista strafottente, e disinteressato fino all’autolesionismo. Generoso e disponibile con tutti, ma dei suoi interessi si curava poco. Al punto che, pur essendo stato per anni al centro dei traffici e dei trenini delle postazioni e delle carriere, ovvero della politica come gestione dei gruppi dirigenti, alla fine è rimasto disoccupato, quando fu messo fuori nel 2013. Non si preoccupò neanche di farsi un posto alla Regione, pur essendo uscito pulito dalle indagini che lo avevano riguardato.
Pare che da parlamentare, però, fosse uno dei più assenteisti.
Lui interpretava il suo ruolo come “attività politica”: stava a Roma a tutelare gli interessi della comunità locale: attraverso il lobbying, il dibattito, il sistema di relazioni e l’orientamento politico.
Un lavoro “extra aula”.
Sì, faceva pochissimo lavoro in aula, ma molto lavoro politico: 14-15 ore al giorno. Ripeto, anche gli avversari gli riconoscono il suo assoluto disinteresse personale. Rimaneva, ovviamente, un uomo di grandissimo potere.
Ma un difetto Antonio Luongo lo teneva?
Il suo difetto era pensare che la politica fosse una leva capace di governare il mondo.
Detta così sembra un pregio.
Mmm, no … è un difetto. Luongo era un uomo del Novecento, del compromesso storico, della “guerra civile” europea. E’ un difetto, perché vent’anni dopo non funzionava più così. Nel libro io parlo del suo “Inverno”: torna in Basilicata e fa il segretario regionale del Pd, ma ormai il “metodo Luongo” –mediazione e confronto- non funziona più. Oggi la politica è lo “spoil system”, la disintermediazione, il “leader” –Pittella in Basilicata e Renzi in Italia- che vince e fa cappotto.
Una colpa di Antonio Luongo? Per la Basilicata, alla fin fine, ha fatto veramente qualcosa?
E’ una bella domanda. Guardi, in politica non esistono “colpe”, ma solo “errori”. Il suo errore è stato forse quello di non arrendersi all’evidenza,ovvero che la sua stagione e il suo tempo erano finiti. Ha preferito fare una cosa dissennata, mentre avrebbe potuto fare il segretario in un solo modo: per acclamazione, con un mandato commissariale. E’ un errore grave, che ha pagato col sangue. Lei lo diceva prima: negli ultimi mesi gli hanno fatto buttare il sangue.
Lei però sta parlando solo di meriti, o demeriti, puramente “politici”.
Ma perché ha fatto solo politica in vita sua!
Io voglio sapere: in cosa è stato utile alla Basilicata?
Certo che è stato utile.
In cosa?
Mmm….Il centrosinistra lucano ha chiuso degli accordi, in virtù dei quali, le risorse del petrolio e dell’acqua, sono state finalmente gestite da Potenza. Lei potrebbe dire: bel risultato! Ma a questo punto la colpa non è certo di Antonio Luongo, né di Bubbico e gli altri, se gli amministratori locali, invece di fare le città-territorio in Val D’Agri, ci hanno fatto il teatrino, sprecando e curandosi i fatti loro. I soldi, però, sono arrivati, e si potevano sicuramente gestire meglio. Mi permetta, allora: questa cosa della società civile che spara sulla Politica, è una cazzata demagogica. La verità è che c’è stata una cattiva gestione delle opportunità offerte dal petrolio e dall’acqua.
Il Pd di oggi senza Antonio Luongo, che momento vive? A “microfoni spenti” mi diceva che non ha mai visto tanto odio.
Il fallimento di Antonio Luongo, magister della gestione dei gruppi dirigenti, è che a un anno e quattro mesi dal suo insediamento, non aveva ancora allestito la direzione regionale. Non esisteva un gruppo dirigente. Pittella a quel punto vede che il partito non esiste e dice “faccio io”. Oggi ci sono state polemiche perché Massimo D’Alema, a ridosso del referendum, ha partecipato alla presentazione del mio libro, ma l’unico capo che Luongo riconosceva era proprio lui. L’assenza di D’Alema, con la massiccia presenza di Renzi, nella comunità degli orfani “dalemiani” lucani, aveva creato un vulnus serio. Lui DOVEVA essere presente quel giorno, e chi non lo capisce è stupido. In generale, però, voglio aggiungere che il Pd di oggi perde perché, passati i tempi delle fabbriche, non è più capace di rappresentare i nuovi poveri.
Due battute sul nuovo Governo Gentiloni che si profila. C’è chi l’ha definito “Renziloni” e chi una “provocazione”.
Questo era un Referendum chiesto dalla maggioranza. Renzi s’intestardisce e sbaglia, perché al di là delle forme giuridiche perfette, lui sa che ha un vulnus, vero, di legittimità popolare, di investitura politica. Ha cercato di ottenerla col referendum e ha perso. Mi ricollego a quanto dicevo prima: Renzi non rappresenta i nuovi poveri, i precari, ma non li rappresenta nemmeno Roberto Speranza. Detto questo, trovo che oggi il distacco di Verdini non è un “Renzi Bis”, ma un modo di Renzi per tenere sott’occhio Gentiloni, impedendogli di consolidarsi.
Chiudiamo con le domande finali. Il film che la rappresenta?
“L’Attimo Fuggente”, con l’omaggio al perdente. Io mi ritengo un “perdente di lusso”: poiché la mia generazione si aspettava che la politica servisse il popolo, e non è andata così. E poi direi anche “I Magnifici Sette”: i guerriglieri che vanno nel villaggio a difendere i poveri contro i banditi.
La canzone?
“Ma chi ha detto che non c’è”, di Gianfranco Manfredi. E’ una canzone del “movimentismo” degli anni Sessanta.
Il libro?
“Operai e Capitale” di Mario Tronti.
Fra cent’anni cosa vorrebbe fosse scritto sulla sua lapide?
Sono napoletano e molto superstizioso, ma direi «Non ha mai avuto paura di riconoscere il torto». Ho un narcisismo talmente maturo, che non mi crea problemi riconoscere di avere torto.