Il caso più significativo fu quello di Mauro Acanfora che nell’agguato aveva il compito di bloccare l’Alfetta ma che il 6 marzo durante l’agguato “era impietrito” e non mosse la sua auto di un millimetro facendo passare l’Alfetta, mentre per il tentativo del 9 marzo non ci fu proprio perché il giorno prima era stato arrestato. Era stato lui stesso a segnalare la sua presenza alla stazione ferroviaria di Campi Flegrei. La sera del 26 aprile 1982 Raffaele Delcogliano cena a Pietrelcina per una cena con il sindaco di Benevento, Antonio Pietrantonio, ed altri amici di partito. In quella occasione disse: “Ma per favore, figuriamoci se le Brigate rosse pensano proprio a me. E chi sono io?”. Il sindaco e l’assessore andarono via insieme e alle 3 di notte si salutarono sotto casa di Delcogliano. Sei ore dopo sotto casa lo aspettava la brigatista Maria Russo che aveva il compito di avvistare l’Alfetta di Delcogliano guidata dal suo autista e amico Aldo Iermano e telefonare a Napoli per allertare il commando. Il gruppo di fuoco, composto da Enzo Stoccoro, Emilio Manna, Annamaria Cotone e Natalia Ligas si avviò verso via Marina. L’Alfetta giunse poco dopo le 10 e fu bloccata dalla 128 guidata da Stoccoro. La Ligas e Manna dal marciapiedi si avvicinarono per sparare – secondo la ricostruzione dello stesso Emilio Manna – ma alla Ligas si inceppò il fucile e allora s’inserì Annamaria Cotone che a sua volta sparò. L’attentato fu rivendicato dalle Brigate rosse-Partito guerriglia.
Nell’estate del 1981, alla conclusione della campagna dei quattro sequestri (Cirillo, Taliercio, Sandrucci, Peci) le Brigate rosse si spaccano: dopo l’autonomizzazione della colonna Walter Alasia, che ha eseguito e gestito in proprio il sequestro del manager Alfa Romeo, Sandrucci, liberato il 23 luglio, si mettono in proprio anche colonna napoletana e fronte carceri che si rifanno alla leadership di Giovanni Senzani e alla tesi elaborate in carcere da Renato Curcio e Alberto Franceschini, dando vita al Partito Guerriglia.
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