«Quando Luongo mi disse: “Non me lo fanno fare”»

«La storia della Sinistra di Basilicata non può essere la storia di quattro salariati della politica». Le riflessioni sul “luonghismo” di Nicola Filazzola, pubblicate sabato 25 marzo 2017 sul settimanale Controsenso, a partire dal libro “Stagioni”.

L’INTERVENTO – Ho letto in questi giorni la ricostruzione del percorso politico di Antonio Luongo fatta da Ugo Tassinari. Un omaggio al dirigente di partito, attraverso le voci di quanti hanno con lui condiviso le molte fasi di una lunga stagione politica. Per oltre un quarto di secolo, Antonio si è trovato a guidare, a volte con un potere incontrastato, altre volte mediando sino allo spasimo, sino alla morte, il processo di unificazione di quello che rimaneva della vecchia DC e del vecchio PCI di Basilicata. Scorrendo le pagine, ciò che mi ha maggiormente sorpreso è stata l’assenza totale di notizie riguardanti la sua esperienza parlamentare. Antonio è stato in parlamento per ben quattordici anni; un tempo abbastanza lungo, per non lasciare tracce di sé, tra gli scranni di Montecitorio. La biografia politica di un parlamentare si fa con gli atti. Ho davanti il libro che raccoglie gli interventi svolti a Montecitorio dal deputato Michele Bianco. Interventi che, oltre a richiamare l’attenzione del governo sulle grandi questioni della Matera e della Basilicata di allora, sono anche un esempio di grande scrittura. Se Tassinari, nel suo pregevole lavoro, non ne parla, è perché o non ce ne sono (non è l’unico dei nostri parlamentari a non aver lasciato tracce significative del proprio passaggio nelle aule di Camera e Senato), o, forse, quelli che risultano non sono di alcuna rilevanza, comunque non degne di essere prese in considerazione. Questo si spiega solo perché Antonio Luongo aveva la testa altrove, e, più precisamente, dentro quegli anfratti della vita politica della Basilicata e della sua Potenza, la città dalla spesa facile, con tutti i problemi che questo comporta per i suoi cittadini e per la stessa regione. Quello che viene fuori, scorrendo le pagine di Tassinari (al di là degli aneddoti raccontati dagli amici di gioventù di Antonio), è un quadro non proprio esaltante, per stessa ammissione dei protagonisti della vita politica di Basilicata con i quali Antonio ha percorso un lunghissimo tratto di strada. Una galassia di grandi e piccole ambizioni, che avrebbe sfiancato anche un rinoceronte e che ha inciso pesantemente sulla fragilità della società lucana, schiacciata da pratiche che nel corso degli anni si sono allontanate (sino a perdersi del tutto) da quello che, prima ancora di essere stato scontro politico, era scontro culturale. Mettere al centro dell’azione politica, come ha fatto Luongo, il destino del gruppo dirigente (preoccupazione che i partiti avevano quando operavano nella clandestinità); aver anteposto le sorti dei “capi” a quelli più generali della crescita democratica e sociale del nostro territorio, si è rivelato disastroso, soprattutto sul piano morale, civile, culturale. Il limite della stagione politica contrassegnata da Antonio Luongo è da ricercare in questa granitica sua convinzione, che ha snaturato lo stesso processo di rinnovamento da lui inaugurato con il Centro Sinistra in Basilicata. L’alleanza politica costruita da Antonio nel ’95 è diventata, per una sorta di sottomissione di tutti i protagonisti che venivano dal Partito Comunista, alleanza culturale, che equivale a come infilare la propria donna nel letto dell’amico. Da quel momento non c’è stato più verso per ragionare. Per gli uomini del partito di Gramsci, di Mario Alicata, gli intellettuali che avevano letto e apprezzato i lucani Francesco Saverio Nitti, Giustino Fortunato, l’irpino Guido Dorso, la parola cultura sparisce dal loro lessico. Una rinuncia che costerà cara. Quello che la Basilicata ha conosciuto è stato solo il politichese. Il dibattito che abbiamo visto svilupparsi è stato sempre appesantito dalle opportunità di “palazzo”; non c’è stata una discussione veramente libera. E’ prevalso il vecchio metodo doroteo, che spegneva sul nascere ogni forma di dissenso. Chi è stato più interessato ad ottenere che a dare (nel senso che non si è disposti a rinunciare ad esprimere le proprie convinzioni anche quando contrastano, e stridentemente, con le scelte adottate da chi detiene le leve del comando) ha fatto le proprie fortune. Pochi mesi prima che Antonio ci lasciasse gli chiesi di vederci. Lo raggiunsi a Potenza una mattina di inizio estate. In quell’incontro provai a dirgli di dotarsi (in attesa della formazione della segreteria politica) di uno staff di tre persone: una per le attività produttive, una a seguire i temi urbanistici e territoriali, la terza alla cultura; per quest’ultima, offrii la mia disponibilità. Lo scopo era di aiutarlo ad uscire dalle sabbie mobili nelle quali si era venuto a trovare. La risposta di Antonio fu lapidaria: non me lo farebbero fare. In quell’occasione gli dissi anche: Antonio, i problemi della Basilicata hanno un solo nome: Potenza. Non seppe o non volle rispondermi; capii che navigava a vista. Non c’è stato modo, in questi anni, nonostante i molti tentativi, di fermarsi a riflettere sul destino di questa nostra regione. E’ stato così, quando provammo a richiamare l’attenzione sulla centrale a turbo gas da 1000 mw che si voleva far costruire nella valle del Basento; ed è stato così pure quando, con una lettera aperta indirizzata al Presidente della Regione Vito De Filippo, si chiedeva di riconsiderare la scelta fatta sul petrolio e puntare, invece, sulla salvaguardia e rilancio del patrimonio naturalistico e paesaggistico. Sarebbe interessante sapere con chi l’ENI, quando si è affacciata la prima volta in Basilicata, ha interloquito e se, in quell’occasione, ha parlato, oltre che dei “benefici”, anche dei danni che le estrazioni avrebbero procurato ai territori interessati dalle perforazioni, lasciando alla Regione la facoltà di decidere, nel pieno rispetto della sua autonomia e responsabilità. Quando questa storia finirà, non basteranno risorse per risanare quanto si è distrutto. Ciò che mi risulta di difficile comprensione, in tutta questa vicenda, è il silenzio degli scrittori, degli artisti e operatori culturali lucani. Mai una parola su quanto sta accadendo. Mai una manifestazione di dissenso. Trovo meschino che su questa materia non si debba dire qualcosa. “La cultura, (per dirla con Levi), è comprensione, formazione, modificazione”; se lascia le cose come stanno, vuol dire che si è fatto altro. L’amarezza per non aver potuto partecipare alla formazione di un piano culturale che modificasse il corso, la piega intrapresa, è dettata dalla delusione che si potesse incidere sulle cose, anche da sponde non necessariamente legate a ruoli di rappresentanza politica, ma che comunque riconoscono alla politica il ruolo di sintesi. Ecco perché la storia della Sinistra di Basilicata non può essere la storia di quattro salariati della politica; dove nessuno si è distinto per cultura, professione, per aver condotto uno studio. Non aver voluto fare quello che doveva essere un incontro di popoli e non una galassia di capetti, mossi unicamente dal desiderio di assicurarsi una più lunga e duratura carriera, ha permesso il formarsi di domini, che, per come si configurano, e per il potere che esercitano, assomiglia più al vecchio sistema dei baroni che a una moderna interpretazione della politica.

Avevano promesso, gli uomini di D’Alema (il leader che, alla prova dei fatti, si è rivelato più un capo ciurma, che un capo politico), di rinnovare la Basilicata; c’è stata, invece, astrazione, che significa allontanamento dal reale, da tutto il reale. Un colpo assassino alle cose, senza possibilità di aggiustamenti, almeno nell’immediato. Se è necessario che sia l’opera volontaria, meritevole di chi si aggira, a bordo di una motoretta, nelle campagne più sperdute della Basilicata (per portare qualche libro da far leggere, come si faceva con ben altri e più confortevoli mezzi, ai tempi della riforma agraria), giacchè la struttura pubblica non è stata capace di dar vita a una rete di piccoli centri di lettura, come è invece facile incontrare nelle montagne dell’Emilia e della Toscana, ciò è la dimostrazione che si sono fatti passi indietro e non in avanti. Prima di concludere questo mio breve contributo, non posso non ricordare l’altro incontro con Antonio Luongo avvenuto molti anni fa, in un piccolo centro della montagna potentina. Quel giorno, c’era con noi anche Donato Scutari, bellissima figura di parlamentare comunista, il quale, nella chiacchierata che si svolse in una trattoria, sosteneva che a fare la storia fossero i leaders. Antonio ed io sostenevamo il contrario, e cioè che fossero le masse la vera forza motrice della storia; cosa della quale sono tuttora pienamente convinto. Che cosa abbia portato Antonio a privilegiare il destino delle classi dirigenti, rispetto alle idealità che lo portarono, aderendo al PCI, a scegliere il destino dei popoli (che non c’entra niente con i populismi e i populisti) richiederebbe una puntata a parte.

*Pittore e poeta

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

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