14 aprile 1975: l’infame sequestro di Carlo Saronio e quei “pentiti di niente”
Il 14 Aprile 1975 il bandito evaso Carlo Casirati e soci, travestiti da carabinieri rapiscono Carlo Saronio, sbagliano la dose di toluolo usata per stordirlo e lo uccidono. Fingono che sia vivo, ottengono dalla famiglia un riscatto di 470 milioni.” Carlo Fioroni, dirigente della componente militare di Autonomia Operaia Organizzata, e basista del sequestro verrà arrestato in Svizzera nel tentativo di riciclare soldi del sequestro. Egli confesserà facendo arrestare Casirati. Costui poi rivelerà il luogo dell’occultamento del cadavere, che verrà ritrovato nel 1979, beneficiando dei relativi sconti di pena. Morto per overdose di toluolo, Carlo Saronio era ricercatore presso l’Istituto Mario Negri e proveniva dalla famiglia proprietaria della Carlo Erba. Era stato simpatizzante di Potere Operaio e frequentava gli ambienti stessi dei suoi rapitori.
I giudici del processo 7 aprile tenteranno di accollare la responsabilità di questo infame delitto alla rete militante di Toni Negri di cui Fioroni era dirigente. Alla vicenda è dedicato un bel libro, “Pentiti di niente”, che Valerio Evangelisti presenta così:
…Antonella Beccaria ricostruisce la storia di Fioroni-Saronio con stile che Jean-Patrick Manchette ha definito ‘behaviorista’: logico, basato esclusivamente sui fatti, privo di digressioni ideologiche o psicologiche. Ne esce un saggio di una suspense tremenda e uno dei migliori libri, tra i tanti che stanno uscendo, sulle pagine più oscure degli anni Settanta. Discostandomi dallo stile scelto dall’autrice, azzarderò una ‘morale della favola’ che le sue pagine mi hanno suggerito. I Demoni possono operare in ogni epoca, ma la loro distruttività è massima solo quando collima con gli interessi – questi sì satanici – di poteri superiori
Qui puoi scaricare il pdf del libro
Pentiti di niente. Milano, 14 aprile 1975, l’ingegnere è stato rapito. Il sequestro e l’omicidio di Carlo Saronio
di Antonella Beccaria
C’è una storia che taglia a metà gli anni Settanta arrivando a lambire quasi tutti gli Ottanta e che diventa un paradigma non solo dello sbando di alcuni personaggi che non trovano collocazione in quel decennio di ideali, ma anche di scontri politici. È quella di Carlo Saronio, giovane ingegnere della borghesia milanese che si avvicina alla sinistra extraparlamentare, ma che finisce preda della bramosia di alcuni di questi personaggi. Oltre al dramma personale di un sequestro e di un omicidio, la vicenda di Carlo Saronio racconta anche la nascita di un fenomeno, quello della dissociazione dalla lotta armata, e della sua strumentalizzazione da parte di chi andava a caccia di sconti di pena. Riuscendo a ottenerli.
Mentre si indaga su chi ha rapito l’ingegnere, la Milano che ne emerge in un primo momento sembra una specie di Marsiglia in cui il Mediterraneo viene sostituito dai Navigli e dalla darsena di Porta Ticinese, ma che nulla ha da invidiare alla disinvoltura dei banditi d’Oltralpe. Una Milano in cui la politica arriva fino a un certo punto e la malavita fa da padrona tra evasioni, ricatti, giri di denaro da riciclare, bella vita ogni volta che si arraffa un po’ di contante. Dove l’umanità si scontra e perde di fronte al profitto criminale e dove non esiste alcun codice etico quando si decide di speculare anche su un cadavere in precedenza fatto sparire.
Ma poi all’improvviso lo scenario cittadino si modifica e quegli stessi personaggi, dai protagonisti alle comparse, dalle vittime ai carnefici, diventano gli interpreti di un copione a sfondo terroristico dove l’”Organizzazione” viene prima di tutto. Anche della solidarietà verso un compagno e dell’amicizia tra due giovani che stanno dalla stessa parte. Il cambiamento è così repentino che non sembra di essere ancora in quei quartieri. Sembra a questo punto di aver attraversato i confini della realtà per entrare in un romanzo di fantapolitica in cui si può raccontare tutto e il contrario di tutto.
Eppure no. Carlo Saronio viene sequestrato e ucciso davvero. A non tornare per molto tempo sarà però la ricostruzione di questo delitto. Sono parole, quelle che si andranno via via pronunciando, che raccontano sempre lo stesso fatto, ma lo fanno ogni volta in modo diverso. Il punto di partenza, che non si modifica mai, è la sorte dell’ingegnere. Il resto – ciò che è avvenuto dopo, ma anche ciò che si è consumato prima del sequestro – muta senza tregua a ogni interrogatorio, a ogni deposizione. Non saranno mai identici la dinamica, i ruoli, le responsabilità, le appartenenze. Non si può fare altro che ripartire sempre da zero, da quella sera dell’aprile 1975 quando Carlo Saronio viene bloccato e costretto a salire su un’auto sconosciuta.
Da una dimensione criminale pasticciona e spietata, con il tempo, con gli anni, si arriva a sostenere che quel ricco militante non era più utile neanche come pollo da spennare per la “causa”. E che il suo destino viene deciso da una potente e implacabile cupola eversiva responsabile, più o meno direttamente, di tutta la violenza politica che si consumava ogni giorno in tutta la nazione. “Mi pento, mi dissocio e vi racconto tutto”, diranno i responsabili della fine che Saronio fa. E parlano, scrivono memoriali, chiedono di incontrare magistrati di procure differenti, indirizzano le indagini. Ma soprattutto si adeguano a quelle che vengono definite emergenze investigative e processuali. In altre parole modificano la realtà sulla base di opportunità. Le loro, ovviamente. Ma vengono creduti.
Il risultato che ne deriva ha un nome: è il processo “7 aprile” che, nei suoi vari gradi, avrà l’unico merito di smentire le parole di chi si definiva collaboratore di giustizia e che proclamava il proprio ripudio al terrorismo. E di dimostrare che il vertice della violenza rossa, quello che tutto avrebbe coordinato e che puntava alla guerra civile, non era mai esistito. Le realtà politiche che pur commisero reati anche molto gravi si muovevano infatti senza contribuire a un disegno più complessivo. Non c’era nessun giovane “grande vecchio”, come si disse di Toni Negri, Oreste Scalzone o Franco Piperno. Non ci furono fiancheggiatori che, pur indicati dai sedicenti pentiti come tali, trascorsero comunque dietro le sbarre anni di carcerazione preventiva in attesa che la loro innocenza fosse riconosciuta.
Ci furono solo coloro che tentarono un’estrema speculazione su un ragazzo che avevano rapito e ucciso a metà degli anni Settanta approfittando di una legislazione che cambiava e che dunque non era ancora stata applicata, di una gestione dell’emergenza non sempre svolta nel rispetto dei diritti degli imputati e di vantaggiosi benefici in termini di anni di galera.
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