In morte di un giovane collega, un elogio del lavoro oscuro del desk

[Di Gianluca parlavo proprio stamattina, con una collega di Bari, e il pezzo in suo ricordo mi si è aperto giusto ora. E per me resta uno strazio...]

Le ultime parole affettuose che gli ho rivolto, congedandomi da direttore della “Nuova Basilicata”, è che i miei cazziatoni – che gli avevo generosamente profuso – gli sarebbero serviti nella vita: perché professionalmente era già molto bravo, ma era ancora – per alcuni aspetti un ragazzino e doveva lavorare sul temperamento. E lui mi ha ringraziato, con stile ma credo anche con sincerità. Non è passato neanche un anno e Gianluca è morto, a 25 anni. Ammazzato da questo lavoro a cui fin da bambino si sentiva destinato. A otto anni col padre in tribuna stampa, a coltivare una passione divorante che lo avrebbe portato prestissimo a raggiungere i primi obiettivi di una carriera che nessuno poteva immaginare meno che splendente. E invece bisognerà pur dire, e la tragica fine di Gianluca ne è una buona occasione, che dietro i luoghi comuni che alimentano il mito della nostra professione, c’è una realtà quotidiana di sangue, sudore, lacrime e merda, l’ossessione della linea della morte, dei tempi di chiusura, per cui quella straordinaria razza di moderni Templari che sono i redattori della line si dannano l’anima e a volte anche la salute. E a questo punto non importa come è andata: un colpo di sonno suo, una sbandata dell’altro autista. No, per una volta mi sento libero dalla schiavitù della notizia (anche se ha aggiunto tenerezza allo strazio la collega ed amica che nell’informarmi della tragedia è stata puntigliosissima nel darmi i particolari, quasi come se, un anno dopo, mi toccasse ancora una volta, di fare il titolo di richiamo in prima). Gianluca se n’è andato, come Gigi Meroni o come Gaetano Scirea (lui sicuramente sarebbe stato pronto a citarne altri quattro di campioni finiti così…). O come S.F., l’amica di Guccini: ed è così che voglio ricordarlo, com’era, pronto per il rito del caffè, nonostante la tirannia dei tempi di chiusura.

E – per dirla con un suo maestro, GioannBrerafuCarlo – che la terra gli sia lieve.

La Nuova Basilicata, primavera 2000

 

 

 

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