4 gennaio 1991, Bologna: tre poliziotti ammazzano tre carabinieri
di Sandro Provvisionato
La nebbia, una nebbia fitta, filtrata appena dalla debole illuminazione stradale, faceva apparire come giganti silenziosi le sagome grigiastre di quei quattro grattacieli di diciassette piani ai bordi di Bologna. Edilizia speciale, l’avevano chiamata. Edilizia programmata.
Non era quello il solito quartiere periferico delle solite periferie metropolitane. Bologna, che metropoli non lo è mai stata e non ne ha mai avuto neppure la vocazione, aveva voluto strafare. Doveva essere un quartiere moderno il Pilastro. Almeno nelle intenzioni, forse troppo venate di ideologismi. Moderno e modello.
Un quartiere modello
Un quartiere ideato con un criterio preciso, semplice quanto sbagliato, costruito negli anni Sessanta per accogliere un’ormai calante immigrazione dal Mezzogiorno. Spazi verdi, impianti sportivi, centri di ricreazione, con le scuole e anche l’autobus che ti porta in città e perfino i centri sanitari. L’idea è decisamente sociale. I terreni sono invece dell’amministrazione comunale da sempre di sinistra e vengono ceduti allo lacp, l’Istituto case popolari. I progetti sono dei migliori architetti bolognesi, Pierluigi Cervellati in testa. Un quartiere nuovo, inteso come un antico borgo medioevale: al centro la piazza e poi le stradine a raggiera che portano alle case, edificate tutte attorno. Solo che le case sono palazzoni di sette e passa piani e il borgo finisce con l’assomigliare a un ghetto, questo sì medioevale. Si decide allora di apportare modifiche ai piani originari: come aprire un semicerchio del sedicente borgo. Ed ecco che sullo sfondo sorgono più tardi quattro grattacieli di diciassette piani ciascuno. Quattro appartamenti a piano. Totale 272 appartamenti.
Il Bronx di Bologna
Dietro ai grattacieli, ecco il Virgolone, un edificio senza soluzione di continuità, lungo 800 metri e alto sette piani che ammucchia un’umanità variegata, in parte proprietaria, in parte affittuaria. Per vedersi assegnata la casa occorrono principalmente due requisiti: un nucleo familiare numeroso e un basso reddito. Poi, qualcuno decide che il Pilastro può anche avere una funzione di riabilitazione, può servire cioè al recupero di chi ha sbagliato e magari è stato in prigione. E allora meglio introdurre un terzo titolo di merito, si fa per dire: contano anche i precedenti penali. Nel senso che per ottenere una casa in affitto al Pilastro è meglio avere la fedina ben sporca. Iniziativa degna e meritoria, solo che così quel quartiere diventa il luogo di Bologna a più alta densità criminale. La sua vocazione è il Bronx e il Pilastro diventa il Bronx di Bologna. Tutti i correttivi introdotti in seguito, con la vendita di appartamenti a mutuo agevolato, con l’inserimento di una piccola borghesia impiegatizia, servono a ben poco. Non c’è il degrado al Pilastro. Specie se si confronta questo agglomerato umano con i quartieri ad esso omologabili di Milano, Torino, Roma.
Una comunità separata
Ma il Pilastro non è Bologna. La tangenziale, torrida o nebbiosa, a seconda delle stagioni, sempre fumigosa, lo separa fisicamente e lo emargina dal rassicurante scalpiccio dei portici, dagli scarichi delle auto sui viali trafficati, dalla pace silenziosa della collina. Non c’è alcuna contiguità tra la città e il più malfamato dei suoi quartieri. Chi abita al Pilastro non sta a Bologna. Sta al Pilastro. Un’umanità, calda ma separata, abita qui. Famiglie di immigrati giunte alla terza generazione, famiglie di operai, di impiegati, di dipendenti statali, senza povertà, con una dignità operosa. Ma con il codice genetico della disgregazione sociale infilata come un cuneo in quell’assurdo affastellarsi di edifici da realismo socialista.
L’attacco
La sera del 4 gennaio 1991 quella nebbia bagnata rende il Pilastro più silenzioso del solito. La pattuglia di Carabinieri, a bordo di Uno blu di servizio, imbocca lentamente via Casini, proprio la strada che taglia in due il quartiere. I tre carabinieri di quella pattuglia, Andrea Moneta, Otello Stefanini e Mauro Mitilini, romani i primi due, il terzo di Casoria (Napoli), sono tutti giovanissimi. Insieme non fanno neppure sessantacinque anni. Quella sera il loro compito consiste nella vigilanza ad una ex scuola, la Romagnoli, da qualche tempo trasformata in un ricovero per extracomunitari. Lì dentro, ammassati alla meglio, ci vivono in 300. Sono gli stessi che il 20 settembre dell’anno prima hanno subito un’aggressione razzista a colpi di bombe molotov che poteva trasformarsi in una strage.
Una stretta sorveglianza
Da quel giorno, quel ghetto per neri è sotto stretta sorveglianza, giorno e notte. Non si è mai saputo se compito dei tre giovani carabinieri fosse una ronda lenta e continua nel quartiere addormentato o, come invece appare più probabile, un posto di guardia fisso davanti all’ex scuola. Non lo si è mai saputo per un motivo semplice quanto strano: l’ordine di servizio riservato a quella pattuglia non si è mai trovato. Sparito, volatilizzato. La Uno blu dei Carabinieri percorre quasi a passo d’uomo via Casini. Sulla destra, nel bel mezzo di un prato, un gruppo di casupole a due piani quasi completamente diroccate, vecchie vestigia di quello che era l’area del Pilastro prima che vi sorgesse il quartiere. Sulla sinistra quei quattro grattacieli imponenti, file su file di finestre illuminate. Sullo sfondo, sempre a sinistra, il mostruoso e interminabile “virgolone”.
Una strage con tanti testimoni
Anche lì, in lontananza, dietro i vetri, le illuminazioni degli appartamenti, lo sbarbaglio dei televisori accesi, una miriade di luci, come scaglie argentate di quel serpentone di mattoni. Mancano pochi minuti alle 22. Il nastro lucido di asfalto che è la via Casini sembra la passerella di un palcoscenico piazzato a bella posta sotto gli occhi di un pubblico composto e silenzioso, distratto certo, ma quanto mai presente e incombente sulla scena dell’imminente delitto.
Un pubblico rintanato nelle proprie abitazioni ma che – come dimostreranno le numerose testimonianze – non manca neppure lungo la strada dove la tragedia sta per esplodere. C’è gente alla fermata dell’autobus numero 20 che porta in centro. Gente vicino alla “casa rossa”, prima e dopo l’edificio che ospita la biblioteca di quartiere. Gente all’altezza di via Ada Negri che taglia sulla sinistra via Casini. Già, via Casini sotto gli occhi di tutti. Luogo improbabile di un improbabile agguato. Luogo improbabile per quant’altro di criminale, assurdo o illegale, data la sua eccessiva, scoraggiante visibilità.
La prima sparatoria
Eppure eccolo l’agguato, eccolo l’atto criminale. All’altezza di via Negri la prima sparatoria. Un’altra Uno, questa di colore bianco, intercetta la pattuglia dei Carabinieri. A bordo vi sono tre uomini armati, a viso scoperto. Forse i Carabinieri notano un’arma lunga spuntare da dietro i finestrini di quell’auto. 0 forse, ignari della tragedia che li attende, proseguono sulla loro strada. Tutto si svolge in pochi attimi. Una valanga di piombo infuocato si abbatte sulla vettura dei Carabinieri che finisce la sua corsa molto più avanti, all’imbocco di piazza Lipparini, contro i cassonetti delle immondizie. La dinamica dell’attacco, specie sulle prime, è difficile da ricostruire. Il volume di fuoco è stato così improvviso e violento che per mesi e mesi i migliori periti balistici nominati dagli inquirenti faticheranno a definire l’esatto svolgimento di quella strage senza senso. Le certezze subito dopo l’impatto mortale sono poche. Anzi pochissime.
Ferito un assalitore
I carabinieri – questi i primi dati disponibili – sarebbero appena riusciti a rispondere al fuoco, sparando al massimo tre colpi di pistola. Uno di quei colpi – questo raccontano alcuni dei numerosi testimoni – avrebbe colpito uno dei tre killer della Uno bianca. Ma anche le testimonianze sono vaghe e contraddittorie. Per alcuni dei presenti l’agguato sarebbe stato fulmineo, inatteso, senza ragione. Una trappola di fiamme e fuoco scattata da dietro, proditoriamente. Per altri il film dell’eccidio sarebbe articolato in due tempi: prima l’attacco senza scampo per i tre militari, poi i banditi che, anziché fuggire, con scientifico accanimento, scendono dalla loro auto e finiscono i tre carabinieri. La Uno bianca risulta investita da una vera gragnuola di micidiali pallottole sulla parte posteriore, ma anche davanti e su entrambe le fiancate. Quella di sinistra appare letteralmente sventrata dai proiettili. Anche sul numero degli aggressori le testimonianze appaiono divergenti.
Le testimonianze contrastanti
C’è chi parla soltanto di tre uomini sulla Uno bianca. Chi di un’altra auto in appoggio. Qualcuno mette sulla scena della strage anche una Golf nera. C’è invece chi ha notato un’altra vettura, una 164, allontanarsi a gran velocità. Per altri ancora i killer erano in realtà sei. E poi gli assassini erano a volto scoperto oppure, come qualcuno riferisce, indossavano un passamontagna (ma c’è anche chi dice un cappuccio) scuro? Testimonianze che non concordano, racconti che in molti particolari si contraddicono. Ma, disgraziatamente, di testimoni, veri o presunti, sicuri di quello che hanno visto o disposti a credere di aver veduto ciò che invece è loro sfuggito, in questa storia ce ne sono molti. Troppi.
Ed ecco allora come, due anni dopo la strage, investigatori e magistratura ricostruiranno l’agguato:
«La Uno blu, con a bordo i carabinieri Mitilini, Stefanini e Moneta, giunge in via Casini poco prima delle 22. Sulla zona grava una nebbia fittissima. I militari notano sulla sinistra un gruppo di persone, in piedi. All’altezza dell’incrocio con via Ada Negri rallentano. Una di quelle persone apre il fuoco con una 38 special (da notare che quest’arma non è stata usata nell’attacco, NDA): sei colpi tutti indirizzati verso il militare alla guida.
Stefanini, pur ferito a morte, spinge sull’acceleratore, cercando di allontanarsi. Dalla destra, all’altezza della casa rossa che funge da biblioteca, parte la Uno bianca con gli altri killer. Nel tragitto fra la prima sparatoria e il conflitto a fuoco finale, i carabinieri Mitilini e Moneta usano le proprie armi per cercare di colpire i killer. Quando l’auto blu militare si arresta, dopo aver urtato il cordolo del marciapiede e alcuni cassonetti della spazzatura, non c’è più scampo. Sui carabinieri sopravvissuti gli assassini scaricano almeno trentasei colpi di 222 Remington, provvedendo poi a dare il colpo di grazia a Mitilini e Moneta che nel frattempo sono caduti dall’auto».
Perché un massacro?
Le confessioni dei poliziotti killer della Uno bianca, gli autori della strage del Pilastro, tenderanno a smontare questa ricostruzione. Le loro ammissioni saranno sufficientemente dettagliate nel loro insieme, ma confuse e soprattutto reticenti quando si tratta di ricostruire l’ultimissima fase dell’attacco, ossia il colpo di grazia inferto ai carabinieri ormai agonizzanti. E’ come se i tre assassini esitassero a spiegare non tanto la strage, quanto quell’ancora oggi imperscrutabile accanimento finale.
Che bisogno avevano i killer della Uno bianca, una volta portato a temine l’attacco in maniera vincente, di fermarsi ad infierire sui corpi in agonia delle loro vittime? Perché non fuggire subito? E’ ipotizzabile che temessero di essere stati riconosciuti oppure la finalità di quell’assurdo attacco era proprio l’eliminazione dei tre militari? Per tentare di rispondere a questi interrogativi prendiamo in esame le loro deposizioni. Si tratta delle confessioni che i killer della Uno bianca hanno reso l’uno all’insaputa degli altri.
Le contraddizioni di Roberto Savi
Ciascuna confessione sulla strage dei Pilastro, che concorda pienamente con le altre nella sostanza, contiene però qualche contraddizione, come se ognuno degli assassini tendesse a sminuire la propria personale responsabilità. Parla Roberto Savi, “il corto”:
«Il triplice omicidio è stato commesso da me e dai miei fratelli Fabio e Alberto. Quella notte eravamo di passaggio al Pilastro a bordo di una Fiat Uno bianca rubata. Io avevo con me la mia AR 70; Fabio aveva il fucile Sig 222; Alberto aveva una pistola 357 magnum. Stavamo andando a San Lazzaro a rubare macchine. Era una notte di nebbia. Ad un certo punto, in via Casini, all’altezza dei grattacieli, siamo stati sorpassati da una Fiat Uno dell’Arma.
Pochi istanti dopo, avendo la sensazione che si fossero insospettiti e ci volessero fermare, ho aperto il finestrino ed ho esploso alcuni colpi con l’AR 70, forse cinque o sei in direzione del lunotto posteriore della vettura dei carabinieri. Il mezzo ha accelerato e si è fermato un po’ più avanti. Siamo subito giunti a ridosso del mezzo con la nostra macchina e tutti e tre siamo scesi. Io sono stato subito colpito da un proiettile esploso dal milite che occupava il posto anteriore destro. Ho sentito un forte dolore e mi sono piegato in due. Forse sono riuscito a sparare un colpo. Nel frattempo Alberto e Fabio sparavano in direzione dei carabinieri. (…) Per quanto riguarda la ferita, non mi ha curato nessuno. L’ho disinfettata con un comune prodotto e successivamente ho preso degli antidolorifici da banco». (Dalla deposizione di Roberto Savi del 28 novembre 1994).
Una deposizione che in aula, il 12 dicembre 1994, durante un’udienza del processo per la strage del Pilastro, lo stesso Roberto Savi conferma: Presidente: «Torniamo a quella sera. Cosa successe?». Roberto Savi: «Venivamo dal centro e voltammo in via Casini. All’inizio di via Casini venimmo superati dai carabinieri a bordo di una Fiat Uno. Pensai che volessero fermarci. Allora sparai, loro non si fermarono e pensai probabilmente che stessero scappando. Ma 150 metri più avanti erano scesi e ci stavano sparando».
La confessioni di Fabio Savi
Del tutto simile, anche se più confusa e, nel tempo, piena di aggiustamenti, la confessione dell’altro fratello Savi, Fabio, “il lungo”: «Ammetto anche l’omicidio dei tre carabinieri al Pilastro. Ci avevano dato l’alt e noi non ci eravamo fermati. A quel punto ci hanno inseguito. Dopo un po’ la situazione si è invertita e dopo che loro hanno iniziato a sparare abbiamo sparato noi. (…)
Come ho detto all’inizio erano loro ad inseguire noi, poi siamo arrivati ad un incrocio, ci siamo girati e ce li siamo trovati su un fianco. A quel punto li abbiamo inseguiti, perché altrimenti ci avrebbero di nuovo inseguito loro. Noi eravamo su un’auto rubata e quindi non potevamo farci controllare.
E’ vero che quella sera mio fratello è stato ferito. Lo abbiamo curato da soli. (…) Effettivamente la sera del Pilastro eravamo io, Roberto e Alberto. (…) alla fine dell’inseguimento scendemmo dalla macchina per proteggerci con le armi in quanto i carabinieri ci stavano sparando addosso. Certamente io non andai a controllare se i carabinieri erano morti tutti. In macchina eravamo seduti nel seguente modo: Luca (l’altro nome con cui veniva chiamato Alberto Savi, NDA) guidava, io ero seduto dietro, Roberto era sul sedile del passeggero». (Dalle deposizioni di Fabio Savi del 28 e 29 novembre 1994).
Fabio Savi aggiusta il tiro
Ma ancora Fabio Savi, undici giorni dopo, aggiusta il tiro delle sue confessioni e fornisce questa nuova versione:
«Quella sera eravamo sulla Uno rubata, io con il mio Sig, Roberto con la sua AR70 e Alberto con la sua 357 alla guida dell’auto. Abbiamo visto una Uno dei Carabinieri ed abbiamo cominciato a seguirla. Roberto ha cominciato a sparare dal finestrino, dalla parte anteriore destra. I carabinieri hanno risposto al fuoco, continuando ad andare con la macchina. Ad un certo punto la nostra macchina si è fermata, eravamo in via Casini, quasi all’inizio, venendo da via Pirandello. Non so spiegare il motivo per il quale la nostra macchina si è fermata. E stato a questo punto che io ho cominciato a sparare, uscendo parzialmente fuori dalla macchina. La macchina dei Carabinieri è continuata ad andare, anzi stava acquistando velocità.
La mia impressione a quel momento è che i carabinieri ci stessero fuggendo. Ad un tratto, quasi alla fine di via Casini, la macchina dei Carabinieri si fermò, andando ad urtare, credo, contro un cassonetto. In quel momento la nostra macchina ripartì, dopo che io ero entrato dentro, andandosi a fermare a circa venti metri dalla macchina dei Carabinieri. Mentre stavamo avvicinandoci alla macchina dei Carabinieri, io ho visto qualcuno scendere dalla macchina ed ho sentito un certo numero di colpi, anche se io non ho notato nessun colpo diretto verso di noi e la macchina in quel momento non è stata colpita».
(Dalla deposizione di Fabio Savi del 9 dicembre 1994).
La Falange armata sapeva
Eppure per quasi cinque anni le indagini, tutte basate su una ricostruzione dell’eccidio molto particolare e su perizie tecnico-balistiche per lo meno imprecise, finiscono con l’imboccare, dopo un lungo periodo di buio assoluto, una strana pista, tutta poggiata, oltretutto, su un movente piuttosto fantasioso che porterà in galera per più di due anni uomini che disperatamente si proclamano innocenti. Ma per il momento investigatori e magistrati non sanno che pesci prendere. E possono al massimo formulare qualche ipotesi sulla matrice del triplice delitto: terrorismo politico, criminalità comune, criminalità organizzata. Per fortuna il movente passionale è escluso! Ma c’è anche chi, fin dal primo momento, si avventura in interpretazioni che poco hanno a che vedere con la realtà.
Gli esperti: Imposimato
Ecco, ad esempio, cosa pensa Ferdinando Imposimato, all’epoca senatore eletto nelle liste del Pci, già magistrato di punta a Roma negli anni di piombo del terrorismo: «Credo che la pista della vendetta di un’organizzazione criminale comune sia la più attendibile. Specialmente per il collegamento temporale con la recente operazione che ha consentito ai Carabinieri di Bologna di arrivare fino ai massimi livelli delle cosche che manovrano i business della droga nell’Italia settentrionale. Non dimentichiamo che uno dei trafficanti, un calabrese di Platì, è rimasto ucciso in quella operazione, nel corso della quale sono stati sequestrati trenta chili di eroina pura: quella droga valeva miliardi e i mafiosi, quando vengono colpiti nei loro affari economici, si arrabbiano sul serio».
Arlacchi e il ruolo della mafia
Sulla stessa linea di sovradimensionamento del fenomeno mafioso si muove un altro personaggio, considerato – a torto o a ragione – un esperto, questa volta di cose di mafia, il sociologo Pino Arlacchi che sul quotidiano La Repubblica disegna uno scenario quanto mai complicato: «Nulla vieta, allora, che alcune operazioni “sotto copertura”, particolarmente incisive dei Carabinieri abbiano danneggiato qualche canale commerciale, mettendo in pericolo la posizione di una banda o di una setta.
I reticoli di traffico illegale dei terroristi/gangster sono molto meno vasti e ramificati di quelli mafiosi e sono anche più fragili. Una volta scoperti, non si riproducono con la stessa facilità e ampiezza. Da qui la rapidità e l’atrocità della reazione contro gli investigatori.
Ma nulla vieta, d’altra parte, che alcune potenti cosche esterne vogliano farsi strada in quello che è uno dei mercati criminali potenzialmente più lucrosi del Paese, adoperando proprio personale o servendosi dei terroristi/gangster locali come teste di ponte per demolire i due principali ostacoli al decollo vero e proprio dell’economia criminale nell’area metropolitana bolognese:
a) un apparato di polizia (Carabinieri e Polizia di Stato) efficiente e ben organizzato e comunque al di sopra dello standard medio nazionale (Arlacchi non poteva di certo conoscere il disastro, non solo organizzativo, della Questura bolognese, NDA);
b) il controllo sociale molto stretto che è parte integrante del “modello emiliano” di prosperità e che si esprime in un’amministrazione pubblica ostile alle pratiche illecite, sostenuta da una popolazione fortemente politicizzata (non solo a sinistra) e pronta a collaborare con le autorità di polizia».
Il dissenso di Violante
Ma un altro esperto, anche lui parlamentare, anche lui già magistrato impegnato contro il terrorismo, l’onorevole Luciano Violante, non è d’accordo. A Violante la strage del Pilastro ricorda quella di Peteano del 1972: anche allora tre carabinieri massacrati a sangue freddo. Si cercò di far passare quella strage come un fatto di criminalità comune – dice Violante all’indomani della strage del Pilastro – poi il giudice Felice Casson scoprì la verità e mise le mani sull’operazione Gladio.
Lo stillicidio della Falange armata
A far riflettere Violante, ma anche gran parte della stampa italiana, sono due elementi ai quali però la magistratura bolognese non sembra dare gran peso: la presenza, ormai emblema di terrore, di una Uno bianca in tutti gli ultimi fatti di sangue del bolognese, quasi una firma per suggellare imprese parossistiche e all’apparenza senza movente, e poi lo stillicidio delle telefonate della misteriosa Falange armata. I centralinisti di questa fantomatica organizzazione, infatti, anche se rivendicano le gesta della banda della Uno bianca quando le notizie sono già state diffuse dagli organi di stampa, sembrano però essere sempre molto ben informati.
Prendiamo ad esempio la telefonata di questa misteriosa organizzazione che arriva alla redazione bolognese dell’Ansa il 9 gennaio, cinque giorni dopo la strage del Pilastro. Riascoltata oggi, alla luce dei fatti che conosciamo, si tratta di una rivendicazione agghiacciante. Il telefonista, che parla con accento tedesco, artefatto, dimostra infatti di avere conoscenze che neppure gli investigatori fino a quel momento possiedono.
Il riconoscimento dell’errore
Si badi bene che ancora a lungo, dopo quella telefonata, gli investigatori muoveranno le loro indagini lungo la direttrice dell’agguato premeditato, della vendetta, della rappresaglia di tipo mafioso. Ma loro, gli uomini della Falange armata, conoscevano questo particolare dall’inizio. Un particolare che combacia alla perfezione con le confessioni dei fratelli Savi. Perché? Beffe e false segnalazioni Non occorreva certo un attento osservatore per notare quanta assonanza esistesse tra l’eccidio del Pilastro e le azioni di sangue avvenute nei mesi immediatamente precedenti a Bologna.
I precedenti evidenti
Quella Uno bianca che compare nell’omicidio di Primo Zecchi, nei due assalti ai campi nomadi alla periferia bolognese, nella folle rapina al distributore di benzina di Castelmaggiore e che è in grado di mettere in campo al Pilastro un simile volume di fuoco, possibile non suggerisca nulla a investigatori e magistrati? E poi le armi. Tranne che nell’assassinio di Zecchi, in tutti gli altri più recenti attacchi compare un fucile, un’arma micidiale e molto speciale.
Le perizie balistiche
Le perizie balistiche, attraverso l’esame dei proiettili recuperati nei corpi delle vittime, tutti di piombo tenero, stabiliranno subito che quell’arma, assimilabile a una mitraglietta, anche se in realtà si tratta di un fucile, è stata usata in tutti e quattro gli assalti che complessivamente hanno stroncato la vita di sette persone. E agli investigatori non può essere sfuggito che quell’arma, prodotta dalla Beretta, non può che essere una delle due versioni che la casa italiana ha immesso sul mercato: la SC70 oppure la AR70. La prima versione non è in vendita, ma è in dotazione solo a corpi speciali, come gli incursori lagunari del battaglione San Marco, i poliziotti dei Nocs e i carabinieri del Gis. La seconda è invece in vendita nelle armerie.
Entrambe le versioni sparano proiettili calibro 5.56. Ma se la SC70 spara a raffica, con una cadenza di 650 colpi al minuto e il proiettile viene espulso con una velocità di quasi 1000 metri al secondo, nel caso della AR70 l’esplosione è a colpo singolo e non a raffica. Inoltre la versione militare di quest’arma è dotata di un retino per recuperare i bossoli che così non restano sul terreno.
Accorgimento di cui, invece, non dispone la versione civile di quest’arma, considerata estremamente precisa: tiro dritto e millimetrico anche ad una distanza di 400 metri. Insomma un’arma lunga che dovrebbe per lo meno far drizzare le orecchie a chi ha il compito delle indagini. E per la quale un censimento, su almeno tutto il territorio regionale, non sarebbe stato affatto impossibile. Eppure quel censimento non verrà mai fatto. Anzi c’è di più.
Un’occasione mancata
Al processo per la strage del Pilastro, durante l’interrogatorio di Roberto Savi, emerge un particolare a dir poco inquietante: quattro mesi dopo l’eccidio dei tre carabinieri, un fucile AR70 fu portato in Questura dal poliziotto assassino e consegnato ad alcuni funzionari di Polizia. Quell’arma, un’arma “pulita”, regolarmente acquistata dal “corto” della banda, che non aveva mai sparato in azioni criminose e tanto meno al Pilastro, prima di essere restituita al legittimo proprietario, venne soltanto fotografata dalla Polizia scientifica. Motivo? Quell’arma, le cui caratteristiche e la cui immagine compaiono su qualunque catalogo specializzato, era del tutto sconosciuta agli investigatori.
La discussione al processo
Ecco la trascrizione della testimonianza di Roberto Savi nell’udienza del processo per la strage del Pilastro del 12 dicembre 1994:
Avvocato: «Portò l’arma così com’era al momento in cui era stata usata al Pilastro al controllo della scientifica?».
Roberto Savi: «Sì».
Avvocato: «Quanto tempo è rimasta alla scientifica?».
Roberto Savi: «Una mezza giornata. L’hanno tenuta al massimo una giornata».
Pubblico ministero: «A chi l’ha consegnata? Faccia i nomi».
Roberto Savi: «C’era tutta la Mobile. Il dottor Preziosa mi sembra… Personalmente consegnai l’arma alla scientifica».
Pubblico ministero: «Chiedo la trasmissione degli atti».
A parte la bugia di Savi che dice di aver portato in Questura l’arma usata al Pilastro, mentre ne portò un’altra identica, ma “pulita”, c’è da notare, in questo breve passaggio, il “coup de théatre” della pubblica accusa, rappresentata dal pubblico ministero Giovanni Spinosa, magistrato che avendo condotto le indagini sulla strage del Pilastro ben conosceva il particolare dell’arma consegnata alla Questura da Roberto Savi.
La querelle dell’Ar70
Proprio a proposito di quel fucile infatti un’aspra “querelle”, nei mesi immediatamente successivi alla strage, era scoppiata tra la Procura di Bologna e una parte della Squadra mobile di cui il dottor Giovanni Preziosa faceva parte. Era stato proprio Preziosa, che a Brescia aveva scoperto un AR70 disattivato, a sollevare, mostrando un ottimo fiuto investigativo, la necessità di fare uno screening di quell’arma, ricevendo un secco rifiuto dalla magistratura bolognese.
Perché? Se si fosse dato retta a Preziosa, poliziotto inviso a una parte della Procura di Bologna per la sua non controllabilità, dove si sarebbe potuti arrivare? Se quel censimento fosse stato fatto, dal momento che l’AR70 usata al Pilastro dai killer della Uno bianca era stato regolarmente acquistato, si sarebbe giunti subito a Roberto Savi il quale, invece, riuscì ad allontanare da sé qualsiasi eventuale sospetto, portando in Questura spontaneamente un’arma simile a quella con cui lo stesso aveva aperto il fuoco sui tre carabinieri, quella maledetta notte al Pilastro. Ma c’è di più.
Roberto Savi denuncia le sue armi
Il 7 gennaio 1991 (attenzione a questa data) Roberto Savi si reca presso il Commissariato di Polizia Santa Viola di Bologna e su carta da bollo presenta una regolare denuncia di possesso di armi. Ne elenca per l’esattezza sette: due pistole calibro 357 (una Colt e una Smith & Wesson) e cinque fucili, tra cui proprio due AR70. Uno è quello che porterà in Questura, l’altro è invece proprio l’arma (matricola n. 47040) che ha sparato al Pilastro contro i carabinieri, ma che è stata usata anche nel duplice omicidio Pasqui-Pedini e nelle due sparatorie ai campi nomadi: un totale di sette morti e diversi feriti.
Una vera beffa da parte del poliziotto assassino. Infatti, se anziché accontentarsi di fotografare l’AR70 consegnato spontaneamente in Questura da Roberto Savi, per poi restituirglielo con tante grazie, fosse stata esaminata la denuncia cumulativa di tutte le armi da lui legalmente possedute, si sarebbe scoperto che il poliziotto era in possesso proprio dell’arma maledetta. Una vera beffa, dicevamo. Anche perché Roberto Savi presentò la sua regolare denuncia di possesso di armi, come abbiamo detto, il 7 gennaio 1991, cioè esattamente tre giorni dopo la strage del Pilastro!
Le false segnalazioni
E proprio a questa beffa si aggiungono, fin dall’inizio, anche le false segnalazioni. La prima arriva dal SISDE, il servizio segreto civile, nei giorni a ridosso della strage. Una nota suggerisce di dare la caccia a sei zingari di origine slava. Per i nostri 007 sarebbero loro gli assassini del Pilastro. La nota informativa aggiunge che sul territorio del bolognese è in atto una guerra per bande per il controllo dello spaccio della droga e che a questa logica sono riconducibili anche i recenti fatti di sangue che hanno interessato due campi nomadi della zona. Il SISDE (cosa questa molto singolare) non fornisce i nomi degli zingari da ricercare, ma spiega di aver attinto le notizie da propri informatori della criminalità organizzata e specifica che il conflitto a fuoco si sarebbe verificato in concomitanza con un ingente trasporto di droga. Se questo non è un depistaggio, poco ci manca.
Sulle tracce di un superkiller
Ai primi di febbraio del ’91, quindi a un mese dalla strage, riemerge invece la pista fantasiosa della spedizione punitiva contro l’Arma dei Carabinieri, rea di aver stroncato la notte di Natale un traffico di droga nella zona di Trezzano sul Naviglio. Si punta su un latitante giovanissimo, scomparso nel nulla un anno prima. Un misterioso superkiller con due omicidi sulla coscienza, fuggito all’estero e che, dopo aver frequentato ambienti militari stranieri, dove avrebbe acquisito una preparazione tecnico-militare da professionista, avrebbe guidato l’attacco al Pilastro, agendo proprio per punire i Carabinieri. In marzo c’è da registrare il primo buco nell’acqua, questa volta da parte degli stessi carabinieri del ROS, lo speciale raggruppamento operativo.
La pista dell’estrema destra
All’alba, su mandato dei magistrati bolognesi che indagano sulla strage del Pilastro, i militari fanno irruzione negli appartamenti di una ventina di estremisti di destra. Sono di qualche elemento che possa collegare la destra all’eccidio. Risultato: pistole giocattolo, pubblicazioni neonaziste e neofasciste e un piccolo gruzzolo di denaro falsificato. In aprile la pista dell’estremismo di destra è ancora calda: i sostituti procuratori di Bologna Giovanni Spinosa, Alberto Candi e Libero Mancuso decidono di interrogare un ex terrorista nero, Giuseppe Lo Presti, trentadue anni, torinese, rapinatore e tossicodipendente, malato di Aids che dice di sapere molto dell’eccidio dei carabinieri. Risultato: un racconto confuso e farneticante. Insomma zero.
FONTE: Sandro Provvisionato, Giustizieri Sanguinari. Tullio Pironti editore, 1995
Ero all’ultimo anno del liceo…lo ricordo benissimo.Ricorda un pò il “Benvenuto al generale” che la Walter Alasia fece a Milano,trucidando 3 agenti nel 1980 che erano in una macchina civetta della polizia…e stranamente anche quello in gennaio.Interessante questo link :
https://www.voltairenet.org/article163703.html
L’ipotesi contenuta è che la banda della Uno bianca facesse parte delle “prove all’invasione sovietica” realizzate in molti paesi europei…Belgio,Francia,Spagna,Svizzera…
Condivido l’ipotesi che la banda Savi fosse in qualche modo una cellula impazzita nel reseau antisovietico dispiegato nel Nord Est. Trovo invece suggestiva e irrilevante la coincidenza sul mese di gennaio con l’omicidio Br. Quanto ai tre morti la spiegazione è banale: le pattuglie in servizio di ordine pubblico giravano a tre per avere un posto libero per un eventuale arrestato…
In sette anni di servizio, i poliziotti della Fiat Uno bianca, oltre a prendere lo stipendio dall’Amministrazione del Min. Int., hanno compiuto 103 atti criminali, 24 morti e 102 feriti.
Le gesta dei poliziotti, di cui si vantavano maggiormente: cinque carabinieri e una guardia giurata, assassinati e con il colpo di grazia alla testa;
due senegalesi assassinati e uno ferito;
un immigrato tunisino ferito; due lavavetri extra comunitari feriti;
nove persone ferite nel campo nomadi di Santa Caterina di Quarto;
presso il campo nomadi di via Gobetti due persone ferite e due assassinate;
tre carabinieri feriti.
Il processo stabilì che lo Stato dovesse versare ai parenti delle 24 vittime 19 miliardi di lire.
Cosa c’è dietro la Uno bianca?
“Dietro la Uno bianca ci sono solo la targa, i fanali e il paraurti.”
Roberto Savi – uno dei cinque poliziotti della banda
Colpisce la ferocia del tutto “irrazionale” di questi criminali, inversamente proporzionale alla contabilità, spesso “misera”, della loro attività di rapinatori. La tesi che, con lo sfacelo del blocco sovietico, soggetti preposti ad intervenire a fronte di una ipotetica invasione abbiano deciso di agire come variabili indipendenti e impazzite non mi pare peregrina.
Le ipotesi legate a coinvolgimenti delle diramazioni di Stay Behind, sono destituite di fondamento, in quanto 5 elementi dei 6 della banda erano poliziotti, quindi, personale civile dello Stato; nulla a che vedere quindi con gli organigrammi operativi delle strutture segrete militari Euro-Atlantiche, con alto clearance di segretezza militare NATO – cosmos. Il Min. Int. è la radice e lo scrigno degli inconfessabili misteri italiani della cosidetta strategia della tensione. Nella fattispecie, il depistaggio del sisde è evidente. Mai luce sarà fatta perché il vero potere è nelle loro mani… grondanti