2 novembre 1979: la fuga di Assata Shakur nel racconto di Silvia Baraldini

Nel maggio del 1973 sull’autostrada che collega New York a Washington dc, avvenne uno scontro a fuoco tra un’auto con a bordo tre afroamericani, compagni collegati al Black Panther Party che avevano scelto di operare in clandestinità, e un membro della polizia stradale dello Stato del New Jersey. Gli unici a sopravvivere furono Assata Shakur e Sundiata Acoli. Con un poliziotto deceduto, tutti erano consapevoli dell’assoluta necessità di intervenire immediatamente a tutela dei due compagni.

La mobilitazione dopo gli arresti

La mobilitazione iniziò nella notte subito dopo il primo notiziario. Verso le tre del mattino ricevetti una telefonata da Linda, anche lei aveva fatto parte del vecchio collettivo, per chiedermi se ero disposta a lavorare con un gruppo per difendere Assata e Sundiata. Io in particolare avevo avuto un legame epistolare con Sundiata durante il processo dei 21 ma ci eravamo persi di vista dopo l’assoluzione.

Non conoscevo Assata, sapevo solo quello che i giornali dicevano di lei, come sapevo che l’accusa di appartenere al Black Liberation Army avrebbe reso il nostro lavoro di difesa quasi impossibile. In quel momento la mia scelta fu determinata dal passato che ci aveva visto lottare insieme.

Un avvenimento inaspettato mi riuniva a compagni e compagne da cui mi ero politicamente allontanata. Difendere due persone accusate di aver ucciso un poliziotto era, e rimane, un lavoro complicato. Nella comunità afro-americana il rapporto con le forze dell’ordine è storicamente contraddittorio. In quel periodo gli abusi, dovuti a cointelpro e all’operato delle squadre speciali, erano evidenti. Ancora non si parlava di racial profiling. Ma i residenti di Harlem, Bedford Stuyvesant, Newark, e South Philadelphia conoscevano in prima persona quanto poteva essere pericoloso essere nero e guidare attraverso il New Jersey.

Altro era confrontarsi con i bianchi e il movimento contro la guerra sulle ragioni e sulla necessità di una struttura clandestina dedita alla salvaguardia delle comunità afroamericane, oltre alla necessità di difendere i suoi membri, come Assata Shakur e Sundiata Acoli nei vari processi che avrebbero affrontato.

Sei processi per il BLA

Dopo il suo arresto Assata è stata processata sei volte, accusata di una varietà di reati che l’Fbi riteneva fossero di responsabilità del Bla. Ogni volta ne uscì indenne. Un ultimo processo doveva essere affrontato, il più difficile. Per lo scontro sull’autostrada del New Jersey, Assata e Sundiata furono accusati di omicidio di un poliziotto e del loro compagno morto durante la sparatoria.

Per condannarla lo stato del New Jersey dovette processarla tre volte. L’ultima volta, nel febbraio 1977, il dibattito si tenne a Morristown, sede di una contea agiata e senza nessun residente afro-americano. Infatti fu lì che il governo poté selezionare una giuria composta solo di bianchi. Finalmente si assicurò che Assata fosse condannata a 120 anni di reclusione.

La condanna di Assata è stata una ferita aperta per tutto il movimento. Anche coloro che non condividevano le sue idee politiche erano convinti che con una giuria differente il verdetto sarebbe stato l’opposto. La lunghezza della condanna e le condizioni di carcerazione, isolata in una cella sotterranea di un carcere maschile, sono stati vissuti come la continuazione della persecuzione politica che l’aveva portata a essere considerata la fuggitiva più pericolosa in tutti gli Stati Uniti.

Il giorno della fuga

Per il movimento la sua liberazione divenne una priorità, e mentre gli avvocati perseguivano un iter legale per impugnare il verdetto, e i comitati di difesa sviluppavano campagne di solidarietà, il suo trasferimento nel carcere femminile del New Jersey offrì l’opportunità alle forze clandestine di andarla a prendere. Il 9 novembre 1979 [in realtà Assata evade il 2 novembre: il falso ricordo di Silvia nasce dal fatto che il 9 novembre è la data della sua cattura, nel 1982, ndb], una giornata fredda e grigia, tre uomini afro-americani furono ammessi come visitatori nel carcere. Venti minuti dopo ne uscirono con Assata e due ostaggi. Recentemente ho saputo che il mio coimputato, il compagno Sekou Odinga, in una conversazione con un giornalista americano ha descritto quello che avvenne durante quegli interminabili minuti.

In queste circostanze mi sento libera di descrivere che cosa accadde una volta che il perimetro del carcere fu superato. È stato mio compito trasportare Assata e Sekou fuori dall’area e consegnarli ai compagni e alle compagne incaricati di proteggerli. Abbiamo attraversato lo Stato accompagnati dalle sirene della polizia che iniziava a erigere blocchi stradali. Erano nascosti nel portabagagli di una grande Lincoln Continental. In un paese così condizionato dal razzismo, a nessun membro delle forze dell’ordine è venuto in mente di fermare un’auto di lusso guidata da una donna bianca.

La mia cattura

Oggi Assata vive a Cuba, protetta dalle continue provocazioni degli Stati Uniti. Nel maggio 2013 l’Fbi l’ha nuovamente posta nella lista dei terroristi più pericolosi e ricercati. Un segnale preciso da parte di un governo non disposto a chiudere la guerra contro il movimento afro-americano. Mentre Sekou, grazie a una lunga battaglia politico-legale, è stato rilasciato nel novembre 2014, dopo trentatré anni di carcere. Identificati i partecipanti, non è stato difficile per il governo trovarmi.

Oramai il mio ruolo era limitato alla sfera pubblica, nella quale dividevo il tempo tra la difesa delle compagne e dei compagni arrestati, e il lavoro che veniva svolto con i movimenti di liberazione in Africa. E fu proprio il 9 novembre 1982, mentre mi recavo alle Nazioni Unite per una cerimonia che onorava l’African National Congress, che nove membri del Joint Terrorism Task Force mi fermarono all’angolo tra Broadway e la 94ma strada.

Silvia Baraldini

FONTE: Paola Staccioli, Sebben che siamo donne. Storie di rivoluzionarie

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

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