12 giugno 1979. Piperno e Pace scrivono a Lotta Continua: amnistia per i combattenti

Lanfranco Pace con Marco pannella. Conferenza stampa dopo il blitz del 7 aprile nella redazione di Metropoli

1. «Metropoli» non è più in edicola. E’ stato sequestrato dagli stessi giudici che hanno architettato e conducono nell’arbitrio e nell’illegalità l’operazione contro autonomia. Quella sorta di «complicità diffusa» che opera alacramente nelle redazioni di quasi tutti i giornali e nella stessa federazione della stampa ha coperto o addirittura santificato anche questo atto; malgrado che esso non avendo rispondenza alcuna nella norma giuridica, violi apertamente una di quelle famose libertà fondamentali da tutti riverite ma da molti, tra coloro che contano, disattese. Il pretesto è ridicolo: un articolo che se fosse stato letto (e riportato) per intero senza il trucco del solo titolo, poteva e può configurare, al più, un grave delitto «colposo»: la sprovveduta fiducia nella capacità dell’istituzione di trarre insegnamento dalle tragedie del recente passato e di autocorreggersi incriminando i responsabili di azioni dannose e illegali soprattutto quando si tratta di funzionari pubblici. 

2. Come se non bastasse altri redattori della rivista sono stati arrestati con le solite iperboliche accuse: Bibo, Lucio, Paolo. Ovviamente nulla si sa o si saprà delle responsabilità differenziate e specifiche che vengono loro attribuite. Gli articoli scritti o semplicemente condivisi, la comune militanza in Potere Operaio, o addirittura partecipazione a quello che per Gallucci, è ormai diventato il corteo del 16 marzo a via Fani. Si tratta, per i giudici, di capi d’accusa ugualmente gravi. Sicché non importa precisare: non è nessuno di essi, ma sono un po’ tutti. La tecnica, già collaudata , è quella di tenersi nel vago mutando di continuo il materiale «probatorio e indiziario». Il risultato di tutto ciò è che al G.8 di Rebibbia sono sequestrati un po’ come dieci anni della nostra vita. Affermiamo a chiare lettere, che, per quanto ci riguarda, siamo pronti a consegnarci solo che gli inquisitori mostrino con atti concreti di recedere dal terreno dell’arbitrio e dell’illegalità.

(…)3.  La nostra mancata collocazione organizzativa; la funzione «ambigua» che tentiamo di assolvere (ambiguità che peraltro rivendichiamo come qualità adeguata «ai fatti» che andiamo trattando); il carattere scomodo e «provocatorio» dei discorsi da noi sempre portati avanti. Tutto concorre ad isolarci, a creare attorno a noi giustificate diffidenze e a farci recitare, nostro malgrado, il ruolo di « ebrei»; ghiotta preda quindi per chi intende e può giocare a fare il nazista. Noi stessi siamo quindi gli ultimi a scommettere sulla nostra riuscita; e perfino — sia detto con rabbia e con paura — in questi giorni, sui nostri destini individuali.

4. Scriviamo quindi queste note, perché nessuno possa nascondersi dietro il dito degli equivoci e dei fraintendimenti. E perché la nostra posizione in uno dei punti che erano a fondamento della breve vita di Metropoli, emerga chiara. Crediamo così di contribuire a chiarire indirettamente il senso di questa operazione di annientamento, nonché i guasti che essa è destinata a produrre. Convinti di non danneggiare posizioni giudiziarie di persone arrestate, siamo costretti per non offrire occasione alcune alle manipolazioni giudiziarie, a riportare in calce alla presente lettera una dichiarazione relativa al «caso» di viale Giulio Cesare.

5. Si può dire che Metropoli ha assunto una sua fisionomia distintiva rispetto all’autonomia organizzata proprio nel periodo del sequestro Moro. In qualche modo, il progetto politico di Metropoli si precisa e si affina operando dentro «il partito delle trattative», la cui fugace apparizione è stata tutt’altro che vana malgrado la sua effimera esistenza e la sconfitta secca che ne ha determinato la fine. Questo «partito», infatti, ha posto per la prima volta — anche per l’opera coatta, ma non per questo meno lucida, dello stesso Aldo Moro — il tema del riconoscimento politico della lotta armata , che ovviamente è tutt’altra cosa dal pretendere o figurare per il nostro paese una situazione di guerra civile in atto. Tema, noi crediamo, destinato ad occupare un posto non secondario nello scontro politico e sociale del nostro paese.

6. Riconoscimento della lotta armata non vuol dire riconoscimento legale delle formazioni combattenti né tanto meno istituzionalizzazione di esse. Nessuno (e comunque non noi) propone per l’Italia una via libanese — pura e disastrosa macerazione militare dei conflitti sociali. Questa sorta di riconoscimento formale è certamente stata, può essere ancora un’ossessione giuridica delle BR ma non ha alcun respiro politico, privo com’è di esiti proficui. Se per avventura avesse successo, servirebbe solo a congelare il presente. Insomma, una sciagura. Riconoscimento della lotta armata non significa neppure accettare o riferirsi necessariamente ai programmi politici delle formazioni combattenti. Questi programmi infatti, quando danno segno di sé, o sono confusi e perciò indiscernibili negli effetti che perseguono; o inutilmente chiari, avvolti tautologicamente attorno alla categoria stantia della dittatura del proletariato e perciò desolatamente privi di obiettivi identificabili e praticabili.

Franco Piperno al festival di radio Sherwood

7. Riconoscimento della lotta armata è invece assunzione dei problemi sociali da cui essa ha origine e dentro cui trova continuo alimento. Da questo punto di vista noi riteniamo ancora oggi le formazioni combattenti più significative per le questioni che indirettamente pongono piuttosto che per le soluzioni che apertamente avanzano. Le questioni che pongono sono certamente tante. La lotta armata infatti nasce e si nutre di tutti i problemi irrisolti — le tentazioni golpiste dei corpi separati, la consuetudine istituzionale a praticare l’illegalità e l’arbitrio a mo’ di integrazione delle leggi, il drammatico divario tra crescita della lotta operaia e l’abilità delle modificazioni introdotte nell’assetto di potere. A noi interessa tuttavia riferirci ad una particolare tematica che sottende la lotta armata : intendiamo quella impropriamente indicata come questione giovanile. Riteniamo questa infatti il vero retroterra forte delle organizzazioni combattenti non solo per la determinazione con cui opera per mandare in rovina gli equilibri sociali, ma perché essa è il problema più europeo ed occidentale, meno italiota, vorremmo dire, tra quelli che caratterizzano la situazione del nostro paese.

8. Abbiamo detto che parlare di questione giovanile è improprio. E infatti non si tratta dell’eterno travaglio generazionale magari esasperato dalla crisi che il paese attraversa. Si tratta di altro. I comportamenti giovanili si inscrivono e rappresentano emblematicamente quella significativa area del non-lavoro ché nel suo insieme compone un nuovo soggetto sociale di cui già diffusamente si è parlato. Ora. negare a quest’area forme di espressione, forme di sopravvivenza e perfino d’identità culturale; rigettarla sistematicamente in una illusoria condizione di non esistenza alimenta molecolarmente il terrorismo «grande», quello diffuso, l’intero arco delle pratiche illegali dall’appropriazione al sabotaggio — insomma tutto ciò che giorno dopo giorno rende l’Italia non il paese più violento del mondo che è bugia smentita dalle comparazioni statistiche, bensì il paese in cui la violenza sociale tende a battere sul politico. Quest’area è destinata ad allargarsi. Non solo per virtù soggettive — pensiamo ai canali di diffusione, nel cuore stesso della classe operaia, che il rifiuto del lavoro ha storicamente trovato e trova in Italia. Ma perché congiura a questo fine lo stesso sviluppo capitalistico e precisamente la forma dell’investimento moderno che è investimento a risparmio di lavoro.

9. Quindi, dal politico della lotta armata al sociale che la alimenta. E’ cosi possibile attrezzarsi per la soluzione del problema. Nel senso di forzare gli spazi della legalità, raggiungere, squilibrando il vecchio assetto, quella configurazione sociale in grado di garantire alle nuove forme di vita, ai nuovi soggetti le condizioni materiali per vivere ed espandersi.

10. Ma non si può affrontare la tematica dei nuovi bisogni e dei soggetti che ne sono i portatori senza interrompere la corsa alla distruzione fisica di centinaia e centinaia di combattenti. Di nuovo non si tratta di sancire un loro particolare status legale, bensì di mostrare disponibilità a una reale inversione di tendenza. Un segno tangibile di questa disponibilità potrebbe essere per esempio l’amnistia per i detenuti politici. Si tenga presente che perfino nelle stime ufficiali il loro numero si aggira sul migliaio — nell’oscura Unione Sovietica i detenuti politici secondo i dati del dissenso sono circa 6 mila. Nessuno vorrà negare quindi lo spessore del problema. La detenzione, in condizioni spesso aberranti, funziona come un ostacolo insormontabile ad ogni tentativo di riportare la lotte nelle forme e nei modi «meno dispendiosi» della conflittualità anche radicale ma di massa Migliaia di detenuti costituiscono un blocco in mano ai «signori della guerra» intenti, per i loro sciagurati interessi, a praticare la soluzione militare come quella più realistica. Ci aspettiamo, a questo punto, l’ironia e il sarcasmo un po’ becero e volgare della stampa: «chiedono l’amnistia adesso che i loro amici sono in galera». Solo una precisazione: l’amnistia è riferita ai combattenti comunisti, qualità che malgrado quel che fingono pensare Calogero e Gallucci, i compagni arrestati il 7 aprile non hanno.

11. Per concludere, quel che è urgente scongiurare è il tentativo di risolvere il problema della lotta armata al livello più basso: sul terreno dell’ordine pubblico. La lotta armata ha infatti già raggiunto in Italia la massa critica, il punto di non ritorno. La via ordinaria, tramite magistratura e polizia, è palesemente impraticabile: ordine pubblico significa quindi più propriamente uso dell’esercito, repressione militare. E’ questa una soluzione possibile ma in qualche modo meno definitiva. Nel senso che comporta un allargamento a dismisura dell’area colpita nonché un’estesa militarizzazione della vita sociale. Insomma, una soluzione argentina. In grado, in ipotesi, di estirpare il fenomeno, ma anche di indurre trasformazioni orrende in tutta la società.

Franco Piperno

Lanfranco Pace

A proposito di viale G. Cesare dichiaro che:

PS – In ordine alla vicenda di Viale Giulio Cesare ho atteso a parlare, data la particolare situazione in cui mi trovo, che mi chiarisse il quadro di quanto era realmente accaduto nonché di quali fossero state le dichiarazioni dì Giuliana Conforto, persona che conosco da tempo e che stimo e quali, invece le eventuali manipolazioni dì magistrati, avvocati e giornalisti. Devo dire che ancora oggi molti punti mi risultano oscuri. Per cui riservandomi ogni giudizio sul ruolo dei singoli dichiaro che:

1. non ho mai telefonato a Giuliana né ho comunque avuto contatti con lei per alloggiare presso la sua abitazione Adriana Faranda e Valerio Morucci.

2. non ho mai «carpito la buona fede» di nessuno.

3. in particolare, non ho mai spacciato un brigatista o ex brigatista per collaboratore di « Metropoli » o di qualsiasi altra iniziativa riferibile all’area dell’autonomia né mai avrei potuto, o potrei farlo.

4. è viceversa vero che Adriana Faranda e Valerio Morucci sono stato amico, amicizia che certamente non rinnego oggi malgrado non abbia più avuto occasione di vederli, se non sbaglio, dall’estate del ’73.

Franco Piperno

FONTE: Lotta Continua, 12 giugno 1979

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

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