12 giugno 1984: la prima sentenza del 7 aprile. Cade il teorema ma resta la stangata
A Roma, dopo 15 mesi, la sentenza al processo per il «7 aprile». Negri condannato a 30 anni. Pene da 25 a 13 anni ad altri 54 imputati. Non punibili due pentiti, 14 assolti. Cade per tutti l’accusa di insurrezione armata – il capo di Autonomia, latitante a Parigi, ritenuto mandante della rapina di Argelato e del sequestro Saronio
ROMA — Cade il «teorema», restano le rapine e gli agguati: un processo durato quindici mesi, quello contro gli autonomi del «7 aprile», si è concluso ieri mattina con la scomparsa dell’accusa che l’aveva determinato, ma con una serie di dure condanne per reati specifici. Trent’anni al latitante Toni Negri, ritenuto mandante del sequestro di Carlo Saronio e della rapina di Argelato (anche se non dell’assassinio, avvenuto in uno scontro a fuoco, del brigadiere Lombardini: epilogo, hanno detto i giudici, « diverso da quello voluto»).
Centinaia di anni di carcere
Venticinque anni per Egidio Monferdin e Gianfranco Pancino, ventuno per Silvana Marelli, venti per Scalzone, sedici per Strano e Tommei. In tutto, 55 condanne per 71 imputati: ma anche, proprio all’ultima pagina del lungo dispositivo, una sorprendente apertura: a sei autonomi (Castellano, Cortiana, Dalmaviva, Funaro, Virno, Pozzi) la Corte d’assise concede il diritto di scontare il resto della pena agli arresti domiciliari. I tredici giorni di consultazione del componenti la prima Corte d’assise si sono conclusi ieri, alle 11,47 in punto. Aula stracolma, come non accadeva dal giorni di apertura del processo, gente assiepata anche dietro le transenne del pubblico, avvocati e rappresentanti del partito radicale già con i comunicati in mano. Tutti in piedi fra il ronzare delle telecamere: il presidente Santiapichi comincia una lettura che durerà più di venti minuti.
Cade l’accusa di insurrezione
L’assoluzione per insufficienza di prove dal reato più grave (l’Insurrezione armata contro i poteri dello Stato) ormai è scontata. Anche l’accusa, due mesi fa, aveva ritenuto che il teorema Calogero, l’assioma Gattucci, il postulato Amato — quella complessa teoria, insomma, per la quale ogni reato rientrava in un generale disegno di sovversione, che poteva essere analizzato solo a Roma — non ha dimostrato «sufficiente spessore». Colpisce, piuttosto, la durezza delle pene inflitte agli altri imputati, rispetto a quella, relativamente mite, assegnata a Negri. Qualche mormorio solo quando Santiapichi comunica la condanna a Silvana Marelli per il sequestro Saronio e altre accuse minori: 21 anni. Ma poi la lettura prosegue senza intralci. La Corte d’assise, evidentemente, ha ritenuto valide tutte le accuse di Carlo Fioroni, nonostante mai abbia potuto vedere il «pentito» in faccia.
Riconosciuti solo due pentiti
Le pene, si riesce a capire subito, sono state graduate con estrema attenzione: sedici anni per Strano e Tommei, tredici per Sbrogiò. La qualità di «pentiti» viene riconosciuta solo a Mauro Borromeo e Franco Gavazzeni, dichiarati per questo non punibili. Ma la vera sorpresa è alla fine: sei imputati, quelli che più nettamente nel corso del processo si erano distinti dalla strategia difensiva dell’altro gruppo, potranno tornarsene a casa, sia pure in stato d’arresto,
Appena i giudici si ritirano, «Chicco» Funaro lo grida, aggrappato dietro la gabbia, a qualcuno del pubblico. Emilio Vesce guarda i cronisti e stringe le spalle: «Un commento? Spero che voi sarete più obiettivi di questa corte». La Marelli dice al suo avvocato, ma a bassa voce: «E” pazzesco». Oreste Strano aggiunge: «Era caduto il teorema Calogero, ma gli apparati dello Stato hanno voluto egualmente questa sentenza». I comunicati dei difensori parlano di «giustizia solo formale», quello della parte civile di «sentenza equilibrata». Ma in tutta l’aula non si sente un grido, né una voce alterata. I difensori avevano chiesto un verdetto che significasse anche fine di un’emergenza nella quale molti non si sentono più: cosi non è stato.
Il p.m. Marini è soddisfatto: «La corte ha riconosciuto che l’impostazione dell’accusa era esatta». Si rinvia tutto alla motivazione della sentenza, o al processo d’appello. Meno, di un’ora, ed è tutto concluso. La gente sfolla, mentre qualcuno chiede: scusa, ma cos’era successo ad Argelato? E quanti anni fa?
FONTE: La Stampa, 13 giugno 1984
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