70 anni fa nasceva Prospero Gallinari. Il racconto dell’infanzia
Dall’autobiografia di Prospero Gallinari, “Un contadino nella metropoli”, il racconto della sua infanzia. Oggi avrebbe compiuto 70 anni.
La matriarca
La famiglia nella quale sono nato, penso di poterla definire una famiglia matriarcale. Forse anche per cause di forza maggiore. Infatti, mio nonno paterno è morto d’infarto in età giovanissima, aveva 47 anni. Mio padre allora era un bambino: aveva solo sette anni (parlo del ’23, perché mio padre è del ’16, mentre mia madre è del ’26). Nella famiglia di mio padre erano in otto fratelli e una sorella. Unica anziana la madre, mia nonna, della quale ho un’immagine molto vaga, perché, sebbene fosse morta in età avanzata, venne a mancare quando io non avevo nemmeno due anni.
È stata lei per lungo tempo la capofamiglia dei Galinari da l’uspèsì, così definiti nel dialetto locale per la zona nella quale vivevano da generazioni: Villa Ospizio. La nonna allevò con le sue braccia tutti i figli partoriti, benché parenti in seconda, abbastanza benestanti, si offrissero come possibili genitori adottivi per alcuni di loro. Nel ricordo di mio padre la nonna ripeteva: “Sono figli miei, li ho fatti io, e in un modo o in un altro li tiro su con le mie braccia”. E così è stato. Infatti, finché è vissuta lei, quella famiglia di maschi è stata diretta e governata da una donna.
Aveva un carattere molto forte, che potremmo dire da vera matrona, tipico di un certo genere di famiglia contadina, almeno per quei tempi. Mio padre ne parlava spesso: era dura, energica… ma non cattiva; era decisa, temprata dalla terra e dalla fatica, capace, nella miseria degli anni Venti, rimasta sola con la turba dei marmocchi, di tenere unita e in dignità tutta la famiglia, facendola crescere sino a mettere a lavorare tutti i ragazzi. Era senz’altro un caso particolare, perché il nonno era morto giovanissimo. Ma, in realtà, nel mondo contadino di quel tempo, non era poi così strano che una donna assumesse sulle proprie spalle un ruolo così impegnativo e forte.
Nelle vecchie famiglie di campagna come la mia, ma anche in molte altre, c’era quasi una divisione di ruoli, fondamentale in quella condizione di vita. In queste famiglie era spesso la quantità dei maschi disponibili a determinarne il valore anche verso il padrone, che avrebbe dovuto dar loro la terra da lavorare. Braccia forti e numerose costituivano una garanzia per il lavoro faticoso dei campi. Ma non risultava meno essenziale il ruolo della donna, specialmente quello della anziana di casa. Il governo della famiglia era primario per la sua stessa sopravvivenza, tanto sul versante economico quanto nella coesione affettiva. Per questo, a proposito di un certo genere di famiglia contadina, come quella da cui provengo, penso non sia poi così esagerato parlare di una forma di matriarcato.
La coperta stretta…
Questa è la condizione nella quale sono nato e in cui, almeno per i primi anni, sono cresciuto. La prima casa nella quale ho vissuto era una tipica cascina di campagna, allora molto comune nella pianura emiliana: da un lato la casa dei contadini nella quale, oltre ad abitare tutta la famiglia, si allevavano gli animali; dall’altro la Villa dei padroni. Una vicinanza che marcava ancor più la differenza di classe e di ruolo. La villa antica, con un grande scalone esterno ornato ai lati da busti di animali in pietra e da complicati fregi marmorei, guardava la casa a due piani con gli animali veri e la moltitudine ingombrante degli attrezzi da lavoro. Nel mezzo un grande cortile ghiaioso, quasi un territorio neutrale, anche se i confini, seppur invisibili, erano invalicabili. Ricordo bene quel cortile e quella ghiaia perché sono stati una delle prime galere che ho conosciuto… E forse questi spazi mi restituiscono anche il primo ricordo vero, intenso, che ho della mia infanzia. Avevo tra gli uno e i due anni.
Succedeva che al pomeriggio, quando tutti andavano nei campi a lavorare, donne comprese, noi marmocchietti – eravamo quattro o cinque – venivamo parcheggiati in mezzo a questo cortile, sopra una vecchia coperta distesa in mezzo alla ghiaia. Una coperta che diventava così la nostra isola in un mare di sassi. Un isolotto piccolo però, perché circondato dalla ghiaia irta e pungente. Venivamo lasciati lì a piedi nudi. La mancanza delle scarpe era l’arma magica con la quale si impediva che ci allontanassimo dal piccolo spazio, evitando pericoli di ogni sorta. Ci avevano eretto una gabbia senza rete… ma avevano le loro buone ragioni, e serviva a impedire che andassimo a cacciarci in guai superiori.
Da Villa Ospizio venni via presto. Avevo poco più di tre anni quando nel ’54 ci spostammo per andare a vivere da soli io, mamma e papà. Con la morte della nonna, i Galinari da l’uspèsì si dispersero in un attimo. I fratelli, ognuno ormai con una propria famiglia, si divisero, e noi andammo a vivere e lavorare come mezzadri in un podere più piccolo, a Villa Mancasale. La zona pareva chiamarsi così perché nell’antichità vi si erano diffuse alcune epidemie causate dalla mancanza del sale nella dieta alimentare.
La prima cosa che ricordo di quei mesi, e che è rimasta impressa nella mia memoria, è proprio il Sammartein. Era una data, quella dell’11 di novembre, ricorrenza di San Martino; ma nelle regole di allora era anche il momento abitualmente prescelto per lo spostamento delle famiglie contadine da un podere all’altro. Il motivo dell’usanza si legava al ritmo delle stagioni e del lavoro agricolo. In quel periodo, per forza di cose, erano già ultimati i lavori di raccolta dei prodotti dell’anno. I contadini che avevano deciso di spostarsi potevano dunque abbandonare il vecchio podere e trasferirsi nel nuovo. La data dell’11 novembre segnava però la conclusione degli spostamenti. I primi lavori nel nuovo podere iniziavano ben prima. Ricordo mio padre che, appena finita l’estate e le lavorazioni dei raccolti del frumento e dell’uva, si recava nell’altro podere per iniziare la lavorazione delle semine dell’anno successivo. Un ricordo bellissimo. Sono stati quelli i miei primi viaggi fuori dal cortile e dai campi di casa. Papà mi metteva in groppa a un cavallo enorme (almeno per me lo era), con una schiena che non riuscivo a cingere con le gambe, e andavamo assieme nel nuovo podere. Mi sembrava un viaggio lunghissimo: case e facce nuove, mai viste, strade, una ferrovia con il passaggio a livello. La scoperta di un nuovo mondo. 1954. Con quei viaggi lasciavo la coperta nel cortile e, con essa anche quei cuginetti, alcuni più grandi di me, che erano stati il mio asilo nido di giochi e pianti.
La figlia del padrone
Non ho comunque dei ricordi tristi sul trasferimento a Mancasale, anzi. L’età che avevo, soltanto tre anni, non mi permetteva di cogliere il mutamento economico intervenuto nella mia famiglia. Passare da affittuario del podere allo stato mezzadrile era stato uno scivolone indietro; e la miseria (che c’era anche prima, ma era meglio sopportata nella condizione della casa colonica) adesso si faceva sentire più forte. Nella condizione mezzadrile, tutto era diviso a metà col padrone. Così, ammazzare una gallina o un coniglio voleva dire dividerli col padroun, come le uova, il latte, e qualsiasi altra cosa venisse prodotta nel podere. Alla fine rimaneva ben poco, e si mangiava spesso polenta e verdura, tanta verdura… Adesso medici e dietisti propagandano l’alimentazione vegetariana come grande cura salutare. Io ho mangiato verdura per anni, perché non c’era altro… La carne non si sapeva bene cosa fosse…
Eravamo senz’altro in una condizione di miseria, anche se non si può dire che facessimo veramente la fame: arrivava la primavera e cominciavi con pomodori, insalata, fagiolini… fino alla nausea; e poi l’inverno con legumi e patate; e la stagione delle pere, delle mele, dell’uva… La spesa, l’acquisto di merce, era un di più, uno sfizio che ben poche volte ci potevamo permettere. Ricordo che per anni, due volte al mese, era solito arrivare dalla città un venditore ambulante il quale passava con una bicicletta e due cassette in legno (una davanti e una fissata dietro la sella) nelle quali portava il pesce. Fisso il palombo.
Nella macelleria a un paio di chilometri da casa vendevano il cavallo. Ogni quindici giorni, mia madre prendeva alternativamente del pesce dall’ambulante, o del macinato di cavallo dal macellaio. Due volte al mese mangiavamo cose che non venivano della nostra produzione diretta, ed era una festa. Quando cominciai ad andare a scuola e a muovermi autonomamente, mia madre mi delegò alla spesa, il che significava andare una volta al mese alla macelleria a comprare 120 lire di macinato di cavallo. Non so quale fosse il peso di quelle polpette, ma era ben più il pangrattato che la mamma ci metteva attorno… Me le ricordo come in un sogno, avevano un sapore buonissimo. Mi domando come le troverei ora, se potessi rimangiarle. Forse sarebbe una delusione. Ed è anche per questo che non ho mai più voluto assaggiarle da grande.
Lì a Mancasale, nelle vicinanze della casa dove abitavo, non c’erano altri bambini. L’unica compagnia era la figlia del padrone del podere con la quale ogni tanto giocavo, ma lo facevamo quasi di nascosto. Se arrivava sua madre, la spgnora padrouna, ci sgridava e ci divideva. Io ero un maschio, abbastanza sporco per i giochi che facevo in campagna, ma soprattutto ero il contadino. Lei, tutta pulitina, era la figlia dei padroni… Non si trattava di una differenza da poco. Quando riuscivamo a giocare, facevamo le solite cose che fanno i bambini a quell’età, il papà e la mamma, il dottore e l’ammalata, ecc. Ma per genitori così evoluti era troppo. Erano talmente repressi, che interpretavano con fantasia deviata dei giochi innocentissimi. Una volta scoprirono che stavamo giocando a farci delle punture… Fu un pandemonio di urla, rimproveri e scapaccioni. E il divieto assoluto di rifrequentarci. Il tempo e il gioco dei bambini era scandito dalla natura e dalla terra che avevi intorno…
Della televisione era arrivata l’immagine, ma quelle in circolazione erano ancora pochissime. Ricordo quando la acquistò il padrone. Dal cortile si sentivano le musiche e le parole, ma l’immagine si poteva solo… immaginare. Il suono di Carosello lo ricordo come il sogno di qualcosa che stava oltre. Le sue figurine le ho scoperte anni dopo. In casa avevamo invece una grossa radio, quelle radio a cassone di una volta, e mio padre si sintonizzava spesso sul terzo programma, che già allora trasmetteva musica classica. Facevano anche opera, ma mio padre preferiva la musica. Altra stazione che spesso ascoltava era Radio Capodistria, nella quale, assieme a giornali radio più di sinistra, trasmettevano anche il liscio, musica tipica delle nostre terre.
Ma in realtà il tempo che papà e mamma avevano a disposizione per quegli sfizi, era ben poco. I loro orari erano scanditi dalla natura: a letto subito dopo cena, e sveglia al mattino intorno alle quattro e mezza – cinque.
“Canoun Ghisel”
Il mio tempo era un altro. Un tempo legato all’età, che significava poi tanta curiosità, voglia di raccogliere pensieri, storie, ovviamente tutte sensazionali. E alcune lo erano per davvero. I racconti di vita, gli aneddoti, mi arrivavano allora, più che dai miei genitori, da mio nonno materno. Il nonno portava un soprannome: Canoun Ghisel. I Ferretti, la sua famiglia, venivano chiamati in dialetto Ghisel. E il nonno era appunto Cannone Ghisel, perché immortalato in una fotografia celeberrima, che lo ritraeva mentre, militare di leva, faceva il presentatarm tenendo fra le braccia la canna del mortaio, chiamato a quei tempi pezzo da novanta per il suo calibro. Era un atteggiamento impareggiabile, una postura sublime che lo eleggeva, soprattutto per il piccolo nipotino che ero, al rango di superuomo. Un Canoun, ecco. Un uomo di una forza spropositata, ma di una dolcezza forse ancora più grande. È certamente la persona alla quale sono stato più legato, a cui ho voluto più bene e del quale ho i ricordi più belli. È stato dai suoi racconti, e dai racconti di chi lo conosceva bene, che ho iniziato a sentir parlare di antifascismo, ma ancor più di ribellione, di rigetto del comando imposto con la violenza, di rifiuto di farsi mettere i piedi in testa.
È stata una delle vie attraverso le quali, per sentieri e percorsi famigliari, ho iniziato ad avvicinarmi alla politica. Sentivo raccontare già da piccolissimo (avevo cinque o sei anni) del ’19, del ’20, di quando i fascisti cominciarono a fare la voce grossa, cercando di imporre regole e vita, preparando le condizioni che, nel ’22, ne decretarono l’avvento. Reggio era stata una città d’avanguardia nelle lotte contadine, ancor prima del fascismo. Erano già sorte le prime cooperative. Le prime esperienze socialiste si datano, in queste terre, già all’inizio del Novecento, se non prima. Ma il primo antifascismo di mio nonno non era stato prettamente politico. Anche se, in quella realtà, qualsiasi ribellione al sopruso in qualche modo finiva per esserlo.
In quegli anni, ancor più in campagna, tolta la chiesa, frequentata soprattutto dalle donne, gli unici momenti di autentica socialità erano costituiti dalle fiere nei paesi, e dalle feste da ballo. Erano avvenimenti che non implicavano risvolti politici e tantomeno intendevano celebrare o alimentare l’antagonismo sociale. Erano solo feste. Però erano momenti di aggregazione sociale che si inserivano in un ambiente nel quale le prime esperienze delle cooperative sociali e l’edificazione delle Case del Popolo rappresentavano già un punto fermo dell’autocoscienza collettiva. Così, il primo obiettivo dei fascisti era sempre quello di impedire i momenti di ritrovo, di socializzazione tra i giovani che non fossero sotto il controllo della chiesa, o inquadrati nei Fasci di combattimento. Le squadracce cominciarono a organizzare le aggressioni. Irrompevano spesso mentre la serata era già in corso e, al grido di “la festa è finita”, intimidivano la gente, cercando di costringere i partecipanti a fare ritorno a casa. Ebbene, erano proprio le persone che avevano conosciuto Canoun Ghisel in quei tempi, a raccontarmi del suo comportamento. L’uomo che sollevava il mortaio come un fucile era un armadio molto dolce, ma altrettanto risoluto a non accettare imposizioni. Tre o quattro sedie fatte del legno pesante di una volta bastavano, impugnate da lui, per ridurre la squadretta a più miti consigli. Era l’uomo del cannone. Anche quando i rapporti di forza erano completamente sbilanciati a favore dei fascisti, prima dell’arrogante interruzione del ballo, gli si doveva almeno il rimborso dei soldi del biglietto. Una volta, però, i fascisti del luogo vollero regolare il conto in modo definitivo. Non sopportavano la fierezza del nonno e, dopo aver rovinato l’ennesima festa, gli tesero un agguato sul percorso di casa. A quei tempi, le pochissime macchine, ma anche i cavalli, erano un privilegio dei padroni, gli altri andavano a piedi per strade ghiaiose di campagna, su carreggiate circondate da siepi e avvolte dal buio della notte…
A un certo punto apparve la squadretta. Sette-otto individui lo circondarono per aggredirlo. Il nonno pensò bene di gettarsi nella siepe che fiancheggiava la strada, afferrando un tronco di grosse dimensioni con il quale cominciò a picchiare a più non posso, rincorrendo gli aggressori. Il risultato fu quello di trasformare gli eroici fascisti in un branco di lepri impegnate in un fuggi fuggi disordinato. Sono stato molto legato al nonno, alla sua figura. Nel mio crescere, nell’arrivare a concepire il giusto e lo sbagliato, nell’identificare il modo in cui occorreva misurarsi con la vita, mi ha dato tanto. Non era una figura politica, un leader, un capopopolo. Era semplicemente un uomo di grande tenerezza, che, al tempo stesso, non chinava la testa al primo comando, risultando autenticamente sicuro di sé e sapendosi guadagnare il rispetto di tutti. Anche alla nonna ho voluto bene, ma è stato Canoun Ghisel la prima vera bandiera della mia vita.
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