27 gennaio 1949: i delitti del taxi e la fine della Volante Rossa
Milano, 27 gennaio 1949, ore 13.15, via Paolo Sarpi. Dalla porta di una trattoria esce un giovane uomo, il suo nome è Felice Ghisalberti. Mentre egli si avvia lungo il marciapiede, un taxi in sosta riparte nella stessa direzione, imboccando via Lomazzo. Giunta lentamente all’altezza dell’uomo, la vettura si sposta verso il centro della carreggiata e dal suo finestrino spuntano due pistole. Cinque colpi vengono esplosi contro Ghisalberti che, colpito a morte, si accascia. Il taxi si allontana rapidamente.
Massaza ucciso in casa
Milano, stesso giorno, ore 21.30, piazza Leonardo da Vinci. Un taxi giunge davanti al numero civico 9, ne discendono due uomini mentre un terzo, dall’interno, tiene a bada con una rivoltella l’autista. Uno dei due si apposta sul portone, l’altro raggiunge un appartamento al pianterreno e suona il campanello. Apre la porta il dottor Leonardo Massaza, contro il quale lo sconosciuto esplode sette colpi di pistola, uccidendolo. I responsabili dell’omicidio, favoriti anche dall’assenza del portinaio, si dileguano velocemente senza essere notati.
Nel pomeriggio del 27, Adriano Bellinzoni si era presentato in questura, dichiarando di essere il conducente del taxi del quale si erano serviti gli autori dell’omicidio di via Paolo Sarpi e di essere stato costretto ad assecondarne la volontà sotto la minaccia delle armi. Ma la sua versione non aveva convinto gli inquirenti che lo avevano trattenuto, sospettandolo di complicità. Successivamente viene identificato l’autista del secondo taxi: anche lui dichiara di essere stato costretto con la forza a trasportare gli assassini del dottor Massaza. Le indagini della Questura sui due omicidi seguono immediatamente la pista politica.
Ghisalberti e l’omicidio di Curiel
Felice Ghisalberti lavorava presso l’officina del padre Egidio. Durante la guerra aveva disertato ma, arrestato dai repubblichini, si era arruolato nella Legione Muti per evitare la deportazione. Si vantava spesso di aver partecipato ad azioni di rastrellamento, a uccisioni e sevizie di partigiani. I1 24 febbraio 1945 aveva partecipato all’assassinio del dirigente comunista Eugenio Curiel e, nel rapporto fatto al suo comandante, si era dichiarato autore materiale dell’uccisione. Arrestato nel 1946, Ghisalberti viene processato per quel delitto ma la Corte lo scagiona, condannando invece a morte gli altri tre coimputati. Da allora egli comincia a ricevere minacce e lettere minatorie, e il padre lo allontana da Milano, fino al momento della partenza per il servizio militare, dal quale era da poco rientrato.
I1 dottor Leonardo Massaza, dirigente dell’ufficio paghe presso la Fabbrica Olap, era stato in Albania e in Grecia per conto del Partito fascista: dopo la Liberazione non si era più occupato di politica, ma si era adoperato per la riassunzione di alcuni dirigenti epurati. In fabbrica era stimato e benvoluto da molti.
La retata della polizia
I1 28 gennaio 1949, la polizia effettua perquisizioni presso il dormitorio dello stabilimento Breda a Sesto San Giovanni, la Scuola-convitto “Rinascita”, la Casa della Cultura di via Filodrammatici e la Casa del popolo di Lambrate: in quest’ultima trova soltanto due pistole in una pentola nella cucina del custode. Essendo l’edificio sede di sezioni del Pci, dell’Anpi, dell’udi, del Fronte della Gioventù e del Comitato Reduci, l’operazione della Questura suscita accese critiche ed attacchi da parte del Partito comunista. Nei giorni successivi, appare su “l’Unità” una serie di articoli e di interventi che esprimono sdegno e preoccupazione per i tentativi di diffamazione nei confronti del partito da parte della questura e dei giornali che tendono ad addebitare i due delitti a militanti comunisti.
Su “l’Unità” del 9 febbraio 1949, Edoardo D’Onofrio parla di “vecchi metodi di provocazione fascista restaurati dall’avversario che ricorre al crimine allo scopo di provocare provvedimenti di polizia e persecuzioni che contrastano con le leggi vigenti e col carattere democratico e nazionale del nostro Partito”.’
Il primo fermo sbagliato
I1 31 gennaio 1949 viene fermato a Novara l’ex partigiano Serafino Lorenzini. Il “Coniere della sera” afferma che “l’esistenza di ‘squadre’ organizzate per creare nel paese, attraverso una serie di atti di terrorismo, una atmosfera di intimidazione e di sospetto, appare sempre più confermata”. Pochi giorni dopo, la pista novarese si rivela sbagliata e la polizia rilascia Lorenzini. L’unica certezza degli inquirenti è che uno degli assassini si chiama Marco, perché così risulta dalle dichiarazioni dei tassisti. In quei giorni arriva ai carabinieri di Milano una segnalazione da parte dei loro colleghi di Pesaro: un certo “Marco”, giunto da Milano, avrebbe avuto incontri con esponenti locali del Pci, vantandosi di essere uno degli autori dei famosi “delitti del taxi” e chiedendo vanamente di essere aiutato. Egli si sarebbe poi presentato a casa dell’ingegner Aldo Carboni, suo amico, ma non avendolo trovato, se ne sarebbe ripartito.
Quell’ubriacone di Trincheri
Immediatamente rintracciato ed interrogato, Carboni rivela che quell’uomo è certamente un operaio specializzato che aveva lavorato con lui a Milano negli anni passati e si chiama Eligio Trincheri. Un operaio con lo stesso nome ha lavorato per alcuni giorni, all’inizio del 1948, nell’officina del padre di Felice Ghisalberti. Ora gli inquirenti sanno chi cercare. Negli stessi giorni, una prostituta milanese arrestata durante una retata dichiara di aver passato la notte fra il 26 e il 27 gennaio con un uomo armato e visibilmente ubriaco, che le aveva mostrato una rivoltella dicendole “Domani faremo lavorare la girandola” (ossia la pistola a rotazione). Sul registro dell’albergo l’uomo si è fumato “Trincherini”. Grazie alle sue ingenuità, i carabinieri riescono finalmente ad arrestarlo in un bar di Milano il 10 febbraio 1949.
Eligio Trincheri è originario della Va1 d’Aosta, la sua famiglia ha un laboratorio di cromatura e nichelatura a Verbania. Dopo 1’8 settembre si rifugia in montagna con altri sbandati ma, catturato in un rastrellamento, si arruola nella X Mas, dalla quale poi diserta per entrare nelle fila partigiane della Brigata “Cesare Battisti” dell’Ossola.
Scelba alla Camera
Nell’immediato dopoguerra è componente di una banda dedita a rapine: su di lui pende un mandato di cattura per lo svaligiamento della Banca Popolare di Novara di Varallo Pombia avvenuto nel 1946. In questura egli confessa immediatamente la sua partecipazione ad entrambi i delitti, chiamando in causa altri due complici: Paolo Finardi, detto Pastecca e un terzo uomo di cui conosce il solo nome di battaglia, Pedro. Finardi si rende irreperibile, ma la testimonianza di Trincheri costituisce una svolta decisiva per le indagini.
Il 14 febbraio, il questore di Milano Agnesina si reca a Roma per riferire al Ministro dell’Interno Scelba. Lo stesso giorno, Scelba elogia alla Camera l’opera dei carabinieri e della Ps e dichiara che gli autori dei due “delitti del taxi” sono ex partigiani che avrebbero trovato rifugio e protezione presso quella Casa del popolo di Lambrate di cui il Pci aveva tanto criticato la perquisizione. Il nome dell’organizzazione da loro costituita è Volante Rossa, il suo capo è un giovane guardiano dell’Innocenti di Milano, Giulio Paggio, noto con il nome di battaglia di “Tenente Alvaro”.
Il tenente Alvaro
Paggio, originario di Saronno, aveva preso parte alla lotta di liberazione nella 118. brigata Garibaldi Attilio Tessaro” che agiva nella zona di Lambrate, distinguendosi come uno degli elementi più attivi e coraggiosi. Come Paolo Finardi, anche lui si rende quasi immediatamente irreperibile. Quando i carabinieri in borghese si presentano ad arrestarlo, egli è stato già avvertito del loro arrivo. “Mentre sta attraversando il cortile incontra un carabiniere in divisa appartenente alla sezione della zona: ‘Scusi, ha visto dei carabinieri? Ce ne devono essere molti, ma debbono essere in borghese’. Riesce quindi a mettersi in salvo.
Dopo il discorso di Scelba, il nome della Volante Rossa si guadagna le prime pagine dei principali quotidiani: se ne parla nei circoli, tra la gente come al Parlamento. C’è chi considera i suoi membri degli spietati sicari politici, elementi di quelle presunte milizie clandestine comuniste che attendevano l’ora X per insorgere e rovesciare la Repubblica; e c’è chi sostiene che si tratta solo di una montatura, una speculazione politica, oppure reagisce con sdegno al fatto che si mandino sotto processo dei partigiani per avere agito contro degli ex fascisti o avere occupato fabbriche in sciopero.
La storia della Volante rossa
La storia della Volante Rossa ha inizio nell’estate del 1945. Durante la guerra partigiana, le “volanti” erano formazioni di pochi elementi che effettuavano rapide incursioni dalle basi alpine verso la pianura per compiere azioni di sabotaggio. In una “Volante Rossa” operante in Valsesia aveva combattuto anche Giulio Paggio, il “tenente Alvaro”, prima di entrare nella 118. brigata Garibaldi a Milano. Terminata la guerra e ritrovatisi a Milano anche altri componenti della formazione di montagna, si decise di costituire una associazione partigiana con lo scopo di conservare viva la memoria della lotta clandestina, dei suoi ideali e dei suoi caduti, denominandola “Volante Rossa – Martiri Partigiani”. È sempre “Alvaro” ad organizzare tutto; verso la fine del 1945 riunisce una sessantina di ex partigiani ed illustra il programma della associazione: “…aiutarci tutti vicendevolmente, trovando lavoro per i disoccupati ed infine […l partecipare sempre uniti alle manifestazioni patriottiche di ogni genere”.
La casa del Popolo d Lambrate
Un autocarro viene acquistato con una sottoscrizione tra gli iscritti per poter avviare un servizio di trasporto e poter essere presenti a tutte le cerimonie patriottiche. Come sede, viene scelta la Casa del Popolo di Lambrate, in via Conte Rosso 12, già Casa del Fascio ed ora occupata da diverse organizzazioni politiche. Qui la Volante allestisce anche feste danzanti e organizza gite domenicali ed escursioni alpinistiche. Tra i fondatori della Volante Rossa, con “Alvaro”, ci sono Ferdinando Clerici (Balilla), Otello Alterchi (Otello), Natale Burato (Lino), Giordano Biadigo (Tom), Sante Marchesi (Santino), Dante Vecchio (Tino), tutti iscritti al Pci. La maggior parte dei componenti della formazione proviene dai ranghi di tre Brigate garibaldine, la 116. la 117. e la 118. operanti tutte nella zona est di Milano.
“Nel 1946 abbiamo comperato alla Fiera di Sinigaglia dei giubbotti di pelle, che erano dei residuati bellici. Ce n’erano di quelli pesanti, foderati di lana di pecora, che erano quelli dei piloti dell’aviazione americana, e li usavamo d’inverno. E c’erano dei giubbotti grigio-verdi di tela con la cerniera, che erano quelli dei marines americani, che invece usavamo d’estate. Eravamo sempre vestiti giorno e notte col giubbotto e pantaloni. Li levavamo solo per fare delle azioni, perché in quel caso ci vestivamo in borghese o da soldati dell’esercito italiano. Quell’anno abbiamo poi inaugurato la bandiera, che era un drappo rosso con una bomba per emblema. L’inno ufficiale era una canzone della vecchia Volante Rossa che si cantava su un’aria sovietica; l’avevamo parzialmente modificata e iniziava: “Volante Rossa pattuglia di sangue/ nelle tue file si vince o si muore”.
I pericoli della reazione
Associazioni di base (giovanili, operaie ma soprattutto partigiane) sorgono in quel periodo un po’ dovunque in Italia: la motivazione di fondo di questo fermento era la volontà di non disperdere, col ritorno alla vita civile, quel patrimonio di umanità e principi etico-politici che si era formato negli uomini e nelle donne che avevano fatto la Resistenza. Restare insieme, restare partigiani, anche in tempo di pace, rappresentava il tentativo, forse un po’ nostalgico e ingenuo, di continuare a vivere in quell’atmosfera di entusiasmo, comunione, solidarietà e grandi ideali nella quale si era svolta la lotta di Liberazione.
Ma vi erano anche esigenze più concrete: il pericolo di una reazione di destra era avvertito come un rischio reale in un paese sconvolto, ancora privo di nuove e stabili istituzioni democratiche. Bisognava continuare a vigilare, e anche per questo solo una minima parte delle armi venne consegnata alle truppe alleate alla fine della guerra, il grosso venne nascosto nella convinzione o nella speranza (per chi attendeva la svolta rivoluzionaria) che prima o poi quelle armi sarebbero nuovamente servite.
Che la battaglia contro il fascismo non fosse finita lo affermava la stessa Associazione Nazionale Partigiani d’Italia che indicava come uno dei suoi principali scopi quello di “contribuire alla eliminazione completa di tutti i residui di regimi antidemocratici, nel campo morale, sociale, politico ed economico ed alla realizzazione di un ordinamento democratico e progressivo nello spirito della Resistenza al fine di impedire, per il futuro, il ritorno di qualsiasi forma palese o mascherata di fascismo”.
Il lavoro di Bermani
*Questo è l’incipit del volume “La Volante Rossa” scritto da Carlo Guerriero e Fausto Rondinelli e pubblicato nel 1996 da Datanews. La ricostruzione degli eventi – precisa una nota – si basa in larga parte sul saggio di Cesare Bermani La Volante Rossa (estate 1945-febbraio 1949) pubblicato nel 1977 sulla rivista “Primo Maggio”. Qui potete scaricare l’intero saggio (qui l’intera collezione di Primo Maggio: il numero con il saggio di Bermani è il 9-10) mentre a seguire riproduciamo le conclusioni della vicenda della Volante Rossa nella ricostruzione di Bermani. Qui una lunga intervista video a Paolo Finardi
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