23 giugno 1980: i Nar per rompere con i vecchi gruppi uccidono il pm Mario Amato

L’unico omicidio progettato e organizzato dai Nuclei armati rivoluzionari contro il pm che indaga sull’estrema destra è l’occasione per una violenta polemica con la vecchia guardia extraparlamentare e per il riconoscimento del totale fallimento di un qualsiasi progetto politico dello spontaneismo armato. Come è evidente dal testo del volantino di rivendicazione (leggi qui)

Il 23 giugno torna in azione la banda Fioravanti-Cavallini per quello che passerà alla storia come l’attentato più significativo nella breve storia della “guerriglia nera”: l’esecuzione del pm che in disperata solitudine indaga contro l’eversione neofascista, fenomeno gravemente sottovalutato dal procuratore capo De Matteo. Mario Amato era arrivato in Procura nel 1977, a raccogliere l’eredità di Occorsio.
Più volte aveva scritto ai superiori e al Csm, raccontando gli attriti con il superiore. Era stato protagonista di uno scontro furibondo nel giugno 1979 con Signorelli, al quale aveva fatto lo sgarbo di notificare l’ordine di cattura per Cla quando questi si era presentato in ufficio per ritirare carte sequestrate in una perquisizione. Per il “professore” il pm ragionava per teoremi ed era ossessionato dall’unicità dell’eversione nera, tendendo a ricondurre tutto ad An e On. Amato si sente isolato per gli attacchi dei difensori che gli rinfacciano una militanza di sinistra da lui negata con veemenza. L’ufficio istruzione respinge o stravolge i provvedimenti chiesti ed è benevolo con i “neri”. Alibrandi sr. lo accusa pubblicamente di caccia ai fantasmi. Confida perciò a un collega che è stanco e sta per chiedere il trasferimento al “civile”. In un incontro a porte chiuse con la I commissione del Csm, il 13 giugno, denuncia lo sfascio dell’ufficio: «fino a tre mesi fa non c’è stata risposta alla mia richiesta di aiuto». Solo con il suo rifiuto di gestire l’inchiesta sul covo di Ostia per sovraccarico di lavoro nasce il pool, con Giordano e poi con Guardata a cui è affidato l’inchiesta sul “Giulio Cesare”. Dopo un lungo periodo di disattenzione nei confronti dell’eversione “nera” – i 5 pm che ne raccoglieranno l’eredità escludono l’esistenza di un disegno preordinato di copertura e occultamento – Amato aveva assunto tutte le inchieste sparse e stava cominciando a lavorare sui collegamenti tra fatti e persone, sobbarcandosi un lavoro massacrante per costruire un archivio mnemonico.
Parte allora nei suoi confronti una campagna criminalizzante: è disegnato come un persecutore che ricorre a qualsiasi mezzo per soffocare ogni azione politica di opposizione da destra. La banda Fioravanti ha più modeste ragioni di risentimento: lo considera responsabile degli interrogatori offensivi per la Mambro dopo l’arresto di Pedretti e del pestaggio in Questura di Alibrandi, malmenato dopo il fermo per l’omicidio Arnesano, firmato dal giovanissimo Catalani (divenuto poi famoso per l’inchiesta su via Poma) ma da lui fortemente voluto. Un avvocato si preoccupa di rassicurare il frastornato pm: “Stia tranquillo Catalani, sappiamo che lei ha solo firmato, ma la decisione non è sua…”
Valerio conduce l’inchiesta: la prima volta va con Alibrandi in Tribunale per farselo descrivere e scopre che Amato non ha né scorta né auto blindata. L’esecuzione è affidata a “Gigi” Cavallini: è l’unico che può agire a volto scoperto non essendo romano e poi è ora che si “faccia” il suo omicidio. L’effetto sorpresa funziona: i giornalisti, abituati ai ragazzini delle bande nere della capitale sono sconcertati dai testimoni che descrivono un uomo «alto circa 1 metro e 75, a viso scoperto, età 30-35 anni, capelli bruni e vestito nocciola con giacca e cravatta in tinta» e concludono che il killerè venuto da fuori. La mattina del 23 giugno “Gigi” scende dall’Honda 400 guidata da Ciavardini e si dirige verso la fermata dell’autobus 391 a viale Jonio. Si accosta alle spalle di Amato e lo fulmina con un solo colpo dietro l’orecchio sinistro. Le riprese impietose della Rai mostreranno un cadavere con le scarpe bucate. Sono le 8,05. La sera è già a Treviso, dove festeggia il “debutto” cenando a ostriche e champagne con Valerio e Francesca.
La sua euforia è una reazione nervosa. Racconta dell’emozione quasi mistica che ha avuto quando ha sparato, rievoca la vampata della pistola, i capelli della vittima che si sono aperti volando via. “Ho visto il soffio della morte” dice pensoso. Nel processo di primo grado “Gigi” precisa che l’omicidio ha rappresentato la rottura definitiva con ogni struttura organizzata e gerarchizzata: “Questi episodi criminosi non erano parte di un piano eversivo ma si trattava di fatti che nascevano e si esaurivano in modo tra loro autonomo, in base a obiettivi scelti secondo le occorrenze. L’omicidio Amato voleva avere il significato di abbandonare i metodi delle lotte tra giovani di opposte fedi politiche, di svincolarsi dal passato e di dirigere semmai l’azione contro lo Stato e i suoi esponenti“.  A sua volta Valerio spiega: “eravamo sottovalutati e di questo ci siamo meravigliati per molto tempo senza riuscire a capire bene perché. L’abbiamo capito in seguito. Per molto tempo ci siamo chiesti perché riuscissimo sempre a sfuggire alle indagini; allora cominciammo a sospettare che ci fosse qualcuno che non voleva prenderci perché si aspettava da noi determinati comportamenti. Era iperdietrologia, e siccome non capivamo, il sospetto che qualcuno stesse costruendo qualcosa alle nostre spalle ci portò a rompere qualsiasi legame, fino ad esordire crudamente con l’omicidio del giudice Amato e di alcuni poliziotti. (…) Ora ci rendiamo conto che prenderci non era poi così facile, perché le forze dell’ordine erano abituate a ragionare sulla lunghezza d’onda delle Brigate rosse: tutta gente con dieci anni più di noi, e con un’organizzazione completamente diversa. Prendiamo ciò che avveniva vicino alle nostre abitazioni: eravamo sicuri che ci avrebbero scoperti perché dicevamo «nel quartiere ci siamo noi», ma non venivano mai da noi, andavano sempre da quelli più anziani; da gente con 5-6-7-10 anni più di noi, e arrestavano loro; erano loro che, innocenti, si facevano mesi di carcere. A noi non pensavano proprio”.
Francesca Mambro non partecipa all’inchiesta – con il pm si conoscevano bene – né all’agguato ma ammette di aver condiviso l’obiettivo, collaborando alla stesura della rivendicazione. Chiarimenti è la più lucida esposizione del progetto spontaneista e al tempo stesso la definitiva rottura con la vecchia leadership della destra extraparlamentare (i tre autori, lei, Valerio e “Gigi” hanno militato esclusivamente nel Fronte della gioventù e il solo Cavallini ha bazzicato avanguardisti e ordinovisti per le sue necessità di latitante). Al processo d’appello lei dichiara: “Non ho fatto pedinamenti né appostamenti per organizzare l’attentato, facevo semplicemente parte dei Nar, stavo dentro la banda e Amato era una persona che tutto l’ambiente della destra eversiva romana non vedeva di buon occhio. Centinaia di persone erano a quel tempo d’accordo su quell’obiettivo. Oggi però la nostra storia si esprime in un altro modo, c’è una riflessione a due livelli, uno politico e uno umano. Vogliamo che il nostro passato sia letto per quello che è stato cioè un gruppo compatto di persone che è passato alla lotta armata, senza legami con i servizi segreti deviati, né con i cugini più grandi di Ordine nuovo e di Avanguardia nazionale, che alla fine non hanno combinato mai niente”. La Mambro in un’intervista televisiva con Zavoli si ostina a respingere i sospetti su un loro ruolo subalterno a occulte centrali di potere: “Se qualcuno avesse provato a strumentalizzare lo spontaneismo armato non credo che gli sarebbe stato facile perché eravamo una banda piuttosto paranoica, non ci fidavamo di nessuno; per noi potevano essere tutte spie e tutte guardie! Eravamo cresciuti con l’idea, anzi con la paranoia che a destra ci fossero infiltrazioni e addirittura agenti provocatori. Tra l’altro proprio perché eravamo stanchi di sentire dire che i fascisti erano in combutta con i poliziotti che erano il braccio armato del potere, abbiamo risposto a modo nostro a quelle teorie”.
Anche Ciavardini, che sarà condannato per aver guidato la moto, rivendicherà l’attentato con argomenti analoghi: “L’omicidio del giudice Mario Amato è conseguenza della mia adesione a quello che chiamo lo spontaneismo armato. Eravamo tutti istintivi e arroganti e pensavamo di essere i buoni in un mondo in cui i cattivi erano quelli che vestivano la divisa o servivano uno Stato da noi ritenuto corrotto. Sbagliavamo, oggi non ne ho dubbi, ma la nostra era una logica di contrapposizione con un nemico visibile e posto sullo stesso nostro piano. Potevamo colpire o essere colpiti ma non avremmo mai accettato la logica dell’imboscata“.

FONTE: UMT, Guerrieri, 1975-1982 Storie di una generazione in nero, Immaginapoli, 2005.

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

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