13.9.80/6. La morte di Giuseppucci raccontata dal “Freddo”

Nel libro intervista con Francesca Fanelli, “La verità del Freddo”, Maurizio Abbatino ricostruisce la morte di Giuseppucci e la campagna di sterminio dei Pesciaroli, il clan Proietti di Monteverde, i responsabili del delitto

«Franco era l’unico testimone di importanti rapporti. L’unico a conoscere i mandanti di omicidi commissionati alla banda. Incluso quello di Mino Pecorelli. Franco sapeva tanto. Troppo. Anche del sequestro Moro. Il suo è stato un omicidio strano. Che i Pesciaroli non avrebbero mai commesso se non su richiesta. E altrettanto strana, due anni dopo, è stata la morte di Danilo Abbruciati. Franco e Danilo avrebbero potuto fare nomi e rivelare scomode verità.»

– Franco Giuseppucci fu ucciso un mese dopo la strage di Bologna, non le sembra strano?

«Nessuno ha mai messo in relazione i due episodi… Ma se si dimostrasse che la tragedia di Bologna è connessa al disastro di Ustica, ed entrambi ad altro, a un complotto più ampio, allora a quella strage si dovrebbe collegare anche l’omicidio di Franco.»

Sabato 13 settembre 1980, Roma, piazza San Cosimato. Quasi tutte le case di fronte allo slargo nel cuore di Trastevere hanno le finestre aperte. A lasciarle spalancate e vuote è stato chi poco prima si è affacciato attratto dai rumori e dalle urla che hanno anticipato l’ennesimo spettacolo di morte. Una curiosità diventata paura davanti al piccolo esercito di uomini accorsi sul posto subito dopo, allertati da una telefonata e da una frase: «Hanno sparato a Franco».

L’hanno ucciso in ospedale

Con le loro auto sbarrano tutte le vie di accesso alla piazza, mentre dietro le finestre rimane, coraggioso, solo il buio delle stanze. Nessuno osa più tornare a guardare la strada. Gli uomini che l’affollano sono noti a Roma. Non hanno divise ma, mentre le saracinesche dei negozi si abbassano una dopo l’altra, si affrettano a interrogare prima il posteggiatore, poi i clienti del bar dove Franco Giuseppucci aveva appena finito di giocare a biliardo.

«Sentivo gli occhi bruciarmi di rabbia. E davanti al sangue del mio amico giurai a me stesso che nessuno sarebbe rimasto vivo». Nessuno dei Proietti. La famiglia che all’epoca gestiva i banchi di pesce al mercato di Monteverde segnò quella sera di settembre la sua condanna a morte. Franco Giuseppucci aveva guidato la sua Renault 5 fino al vicino Ospedale Nuovo Regina Margherita, poco distante dal luogo dell’agguato.

«Al pronto soccorso arrivammo in pochi minuti. Tutti insieme, armati. Franco era sveglio, lucido. Accanto a lui c’era un medico. Mi disse che la ferita non era grave. Che stavano preparando la sala operatoria per estrarre il proiettile. L’errore che abbiamo commesso è stato di lasciarlo da solo in quell’ospedale. Perché è lì che Franco è stato ucciso».

Vendetta, tremenda vendetta

Come un branco di lupi inferociti, pronti a dare la caccia a chi aveva osato toccare il loro capo, gli assassini della Magliana fanno partire una vendetta che non lascerà scampo ai Pesciaroli.

«Ci dissero della moto. Una Honda 500 con un borsello attaccato al portapacchi e lasciato aperto per coprire la targa. Di un ragazzo che avanzava imbracciando un fucile da caccia. Ci dissero dell’imprecazione urlata da Franco, che lo disarmò afferrando l’arma per la canna. Il fucile volò a terra e lui salì in auto dando le spalle al suo assassino, che in quel momento tirò fuori dalla cintola una pistola calibro 22. Sparò un solo colpo prima di scappare. Mai i Proietti si sarebbero esposti a un rischio del genere se non fossero stati appoggiati da qualcuno… ma non dell’ambiente, più in alto. Qualcuno che garantì coperture».
Coperture che, seppur arrivarono, furono del tutto inutili.

Non potendosela prendere con i killer di Giuseppucci, perché Maurizio e Fernando Proietti erano in carcere e Mario Proietti irrintracciabile, la banda decide di eliminare un cugino carnale, Enrico Proietti detto il Cane, spesso avvistato sul litorale romano, fra i tavoli delle bische clandestine. Paolo Frau, guardaspalle di Danilo Abbruciati, riferisce alla banda di averlo visto entrare in una villa di Ostia dove è stata organizzata una partita di carte.

Una vittima innocente

Il 19 settembre, neanche una settimana dopo l’omicidio di Giuseppucci, Abbatino, Marcello Colafigli, Edoardo Toscano, Paolo Frau e Massimo Carminati [che sarà assolto dall’accusa di duplice tentato omicidio] si appostano nei dintorni della villa ad attendere che ne esca Enrico Proietti.

«L’attesa durò diverse ore, poi dal cancello aperto uscì un’auto che inseguimmo per circa cinquecento metri. Carminati col mitra, e Marcello Colafigli prima con una calibro 9 e poi con un fucile a canne mozze, fecero fuoco, mentre l’uomo alla guida inserì la retromarcia tornando verso l’ingresso della villa. Pochi attimi e balzò fuori dall’auto gettandosi in una scarpata, mentre l’altro passeggero, che non avevamo capito fosse una donna, si accucciò sul sedile. I colpi passarono l’auto da parte a parte».

In ospedale, in condizioni gravissime, finì Nicoletta Marchesi, fidanzata di Pierluigi Parente, ventotto anni, avvocato, il ragazzo alla guida dell’auto. Due giovani che con l’omicidio di Giuseppucci e la vendetta dei boss della Magliana non avevano niente a che fare.

I primi attacchi a vuoto, poi tre morti

Un mese dopo, ci riprovarono: «Ci appostammo davanti all’abitazione di Enrico Proietti. Ma riuscimmo solo a ferirlo. Erano attenti. Sapevano di averci alle calcagna. Anche Orazio Proietti, quattro giorni dopo, riuscì a sfuggirci».

In una sala giochi di via Rubicone, nel quartiere Salario, fu invece freddato a colpi di pistola Orazio Benedetti, collaboratore legato ai Pesciaroli, colpevole di aver brindato alla notizia dell’uccisione di Giuseppucci. Era il 23 gennaio 1981. Due mesi dopo, il 16 marzo, toccò a Maurizio detto il Pescetto e a suo fratello, Mario Proietti, già scampato a un altro agguato.

«Per un mese ho puntato la sveglia alle tre del mattino. Mi vestivo in silenzio, al buio, per non svegliare mio fratello Roberto. Raggiungevo gli altri davanti al bar Fermi alla Magliana e con una Ritmo blu, rubata, attraversavo tutta la città per raggiungere una bisca frequentata da Mario Proietti, detto Palle d’oro. Infatti, una mattina all’alba, lo vidi. Mi avvicinai alla sua auto ma lui fu più veloce, e si lanciò nei cespugli. Marcello Colafigli gli corse dietro, sparando. I colpi secchi di pistola attirarono una volante della polizia che, probabilmente, stazionava in quella zona. Dissi che eravamo agenti in borghese. Rimasi fermo, impassibile… Risalirono in auto per chiedere rinforzi. E io e Marcello ne approfittammo per dileguarci».

L’imboscata di Donna Olimpia

«La soffiata giusta arrivò a metà marzo: ci dissero che avremmo trovato il Pescetto e Palle d’oro in via di Donna Olimpia. Che ci sarebbero andati con mogli e figli. Dal deposito, al ministero della Sanità, scelsi le armi: una bomba a mano di tipo “ananas” e un mitra M12 che vennero affidati a Giorgio Paradisi, e cinque pistole di cui due andarono a Marcello Colafigli, una a Mancini, una la presi per me e l’altra per Raffaele Pernasetti. Ci appostammo in via di Donna Olimpia, la strada che taglia da nord verso sud il quartiere di Monteverde. Io e Pernasetti fermammo l’auto nel punto in cui la via si biforca, per evitare un’eventuale fuga. Gli altri, invece, andarono dalla parte opposta.

«Era già sera quando i Proietti spuntarono sul marciapiede di via di Donna Olimpia. Camminavano uno vicino all’altro, tranquilli. Con loro c’era anche un bambino. Mancini e Colafigli in un attimo gli furono dietro a piedi, Paradisi in auto.
«Sentimmo gli spari provenire dai pressi di uno stabile col portone a vetri. Ci avvicinammo facendoci spazio tra un gruppo di persone che correvano terrorizzate nella nostra direzione. Di Colafigli e Mancini non c’era traccia.

«Alla tv del bar di via Chiabrera, dove ci eravamo dati appuntamento, un’edizione straordinaria del telegiornale diede la notizia di una sparatoria. Parlava di due banditi asserragliati in un appartamento e di agenti in borghese intervenuti per sventare un agguato. Di decine di volanti che avevano circondato il palazzo.»
Nello scontro a fuoco, Colafigli e Mancini erano rimasti lievemente feriti. Avevano riparato all’interno di un appartamento dello stabile, dove poi furono tratti in arresto.

– Perché Claudio Sicilia disse che lei in via di Donna Olimpia non c’era? Anche Antonio Mancini negò di averla vista.

«Perché avevo un alibi per quell’agguato. Con Edoardo Toscano avevo preso in affitto una casa appena fuori Roma, a Filettino. In caso ci fossero stati problemi – come avvenne – avrei potuto dimostrare la mia estraneità. Maurizio Proietti fu ucciso, il fratello Mario rimase solo ferito.»
Quel giorno brindarono i boss della Magliana.
Di Proietti da eliminare ne restava solo uno, Fernando detto il Pugile, che si era salvato perché arrestato la sera stessa dell’omicidio di Giuseppucci. Quando lasciò il carcere, nel 1982, si misero subito sulle sue tracce.

L’ultima preda

«Fu l’avidità a ucciderlo» spiega Abbatino. «Prendeva il pizzo dai negozianti e fu avvistato da Giorgio Paradisi in viale Marconi, a trecento metri dal bar di via Enrico Fermi che era ormai diventato la nostra base. Parcheggiata di fronte c’era una macchina con un carico di armi pronte per le emergenze. Edoardo Toscano prese una 38. Fernando Proietti entrò in un negozio di abbigliamento a riscuotere, all’uscita se lo ritrovò davanti. Cercò di scappare infilandosi in auto, ma Edoardo lo raggiunse. E chiuse il conto che avevamo con i Proietti.»

– Uccidere per vendicarsi: oggi lo farebbe ancora?

«Sono un’altra persona, non credo. Ma Franco era un amico. Un fratello, per me. Al cinema con lui non ricordo di aver mai pagato: conosceva tutte le maschere delle sale di Roma, quelle che ti accompagnavano con la luce alla poltrona libera. Probabilmente era andato a letto con tutte. Non era bello, ma aveva successo con le donne. Era simpatico, sempre con la battuta pronta. Gli piaceva fare il boss, comandare. La sua canzone preferita era Champagne di Peppino di Capri, continuava ad ascoltarla, e poi adorava Fred Bongusto. Ma amava anche giocare, un vizio che lo portava tutte le sere in una bisca diversa. Speravo che con la nascita del figlio si tranquillizzasse, ma non fu così… Il gioco lo divorava. Da sempre. Il padre aveva due forni e un supermercato, e Franco appena diciottenne prese i dieci milioni di lire con cui avrebbe dovuto pagare i fornitori e andò a Venezia, al casinò, in compagnia di una donna. Si giocò tutto. La moglie, Patrizia, era intelligente, sveglia e anche molto bella. Mi chiedeva spesso di andarlo a recuperare dalle bische. Di riportarlo a casa.»

– Lei era il miglior amico di Franco Giuseppucci?

«Sì, ero il suo migliore amico. Il suo unico figlio porta il mio nome. A due anni sembrava Franco in miniatura, oggi per sua fortuna è diventato bello come la madre. Franco voleva a tutti i costi che fossi io il padrino di Maurizio, ma io facevo fatica a ritrovarmi davanti a un altare… Entrai in chiesa solo per battezzarlo. Da piccolo facevo il chierichetto e servivo messa, ma sapevo che Dio mi avrebbe visto per l’uomo che ero diventato. Non per il bambino che ero stato.»

– Come nasce la banda della Magliana?

«Il nome non è una genialità giornalistica, come hanno voluto far credere. La banda c’era fin dai primi anni Settanta e nell’ambiente era già chiamata così. In quegli anni, di bande ce n’erano molte, alcune ben organizzate, altre più agguerrite e anche spietate, come i Marsigliesi. C’era la banda della Kawasaki a Primavalle, un’altra che faceva capo ai fratelli Pellegrinetti a Val Melaina, quella di Torpignattara e l’altra di Ettore Tabarani che poi entrò in conflitto con Danilo Abbruciati, c’era la banda dell’Alberone con Renatino… Ma solo la nostra diventò un’associazione mafiosa.

«Furono strette alleanze, e la corruzione che prima era casuale diventò sistema. Avevamo a nostra completa disposizione persone corrotte nell’ambito sanitario, politico, nei tribunali e nelle forze dell’ordine. Con un gruppo di avvocati stringemmo una collaborazione fissa. Erano stipendiati e pronti a intervenire in qualsiasi momento, anche per un semplice fermo. La nostra era una banda organizzata, fatta di rapporti e connivenze. Era un sodalizio criminale pericoloso e spietato. Era un’associazione.

«Durante il processo lo stesso Massimo Carminati la chiamò “banda della Magliana”. Ne confermò l’esistenza per poi prenderne le distanze. Così come Cristiano Fioravanti. Solo i nostri avvocati sostennero la tesi del “nome giornalistico”, per sminuirne il carattere organizzato e quindi far cadere l’accusa di associazione mafiosa. E in Appello ci riuscirono. Se allora fosse stata riconosciuta, forse oggi sarebbe andata diversamente anche con Mafia capitale.»

– Quindi la banda della Magliana era un’associazione mafiosa?

«Era un’associazione mafiosa ramificata e consolidata, non solo sul territorio romano.»

– Quando incontrò Giuseppucci?

«Fu Enrico De Pedis, Renatino, che aveva una sua batteria con gente dell’Alberone e del Testaccio, a farmi conoscere Franco. Era uno dei pochi ad avere una famiglia benestante alle spalle. Forse per questo, per tutelarlo, Renatino evitava di utilizzarlo nelle rapine. Franco custodiva i soldi e le armi. Era ancora incensurato e godeva della fiducia di tutti. Le armi le conservava all’interno di una roulotte di sua proprietà parcheggiata al Gianicolo. Alla fine del 1974 la polizia scoprì la roulotte e la sequestrò. Franco venne arrestato, ma se la cavò con poco: fu rilasciato dopo un paio di mesi perché la roulotte aveva un vetro rotto e pertanto riuscì a dimostrare di non sapere nulla delle armi all’interno.

Il furto del borsone

«Nel frattempo Renatino era stato arrestato insieme ad Alessandro D’Ortenzi detto Zanzarone, e Franco si ritrovò da solo a custodire tutte le sue armi in un maggiolone cabrio che fu rubato proprio nella sua zona, il Testaccio. Il giorno successivo quelle armi furono offerte a noi della Magliana per due milioni di lire. Capii subito che si trattava del “borsone” di una batteria: c’erano pistole, un fucile a canne mozze, proiettili e mitra…

Lo presi per tenerlo ma anche per capirne la provenienza. Franco era già alla ricerca dell’auto e delle armi, quando arrivò da me tirò un sospiro di sollievo. Pretese il nome del “ladro”, uno scippatore del quartiere, tal Giovanni Tigani. Lo raggiungemmo insieme. Lo portammo al fiume a fare quattro passi… Sembrerà incredibile ma non lo ammazzammo.»

Maurizio Abbatino fa una pausa, come se avesse bisogno di un momento per raccogliere da un ricordo chiaro una riflessione importante.

«Fu in quel momento che Franco entrò a far parte della banda della Magliana.»

FONTE: Maurizio Abbatino (intervistato da Francesca Fanelli) – La verità del Freddo

Per approfondire

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

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